Giulia Zollino, la sex worker che fa divulgazione su Instagram: «Riappropriamoci del termine “puttana”» – L’intervista
Il 3 marzo 2010 la sezione terza della Corte suprema di Cassazione stabiliva che un cliente, dopo aver avuto un rapporto con una prostituta, se non le dà il compenso pattuito, rischia una condanna per violenza sessuale. Sempre la Cassazione, nel 2010, ha stabilito che la prostituzione è un’attività “lecita”, quindi, per questo, deve essere sottoposta a tassazione. Diventa illegale quando subentrano reati collaterali legati a questo settore, come quelli di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione.
Dati precisi, percentuali, è difficile reperirli: quello della prostituzione è un terreno sconfinato, fatto di microcosmi ancora inesplorati. Basti pensare a chi fa “sex on cam”, alla pornografia, a chi invita ad avere rapporti in diretta sul web. Per cui tirare le somme di quante persone sono effettivamente coinvolte e di quanto indotto produca l’attività è complicato.
Ma si possono tracciare dei contorni. Secondo un’indagine condotta dal Codacons che risale ad agosto 2020, in un decennio il fatturato della prostituzione è cresciuto del 25,8%, mentre il dato di chi si serve della prostituzione è aumentato del 28,5%. Il rapporto racconta anche come, negli ultimi anni, si sia assistito a una progressiva riduzione del numero di prostitute che operano in strada: corrispondono al 60% del totale.
Cresce poi il numero di donne che decidono di lavorare in casa o in altre strutture non all’aperto (40%). Della totalità delle prostitute il 10% è minorenne. Mediamente la spesa dei clienti abituali è sui 110 euro al mese. Le prestazioni sono diversificate a seconda del servizio reso: per una escort, ad esempio, si arriva a pagare anche 500 euro. Costi che scendono a 20 euro in caso di prestazioni di breve durata sulla strada.
Chi prova da tempo a raccontare il mondo della prostituzione oltre gli stereotipi è Giulia Zollino. Veneta, ha studiato Antropologia a Bologna, cui è seguito un Master sui Fenomeni migratori. Ed è stata, a suo tempo, operatrice di strada – ovvero un servizio di riduzione del danno rivolto alle lavoratrici sessuali che lavorano outdoor e indoor. Ora, invece, è una sex worker occasionale e fa divulgazione sui social: i suoi Putitalks – e non solo, contando quasi 13 mila follower.
Giulia, come mai il bisogno di aprire un canale Instagram per parlare di sessualità e, in particolare, di prostituzione?
«Direi che tutto è partito da una necessità, dopo la mia esperienza come operatrice in unità di strada. Mi sono accorta che il settore è ancora circondato da un alone di luoghi comuni, ipocrisie. Più semplicemente le persone non sanno con esattezza di cosa parlano quando parlano di persone che fanno sex work. E io avevo bisogno di parlarne per capire il punto di vista degli altri e per raccontare il mio».
Quali sono i luoghi comuni più diffusi?
«Molte persone pensano che chi fa sex work sia una persona sfruttata o vittima di tratta, quando in realtà molte persone lo fanno per necessità economica perché viviamo in un mondo che impone a tutti di lavorare. Chi invece subisce minacce, sevizie, è addentrato in un contesto fatto di forti disuguaglianze. Insomma, c’è un pregiudizio molto forte sulla “strada”».
E invece come stanno veramente le cose?
«Semplice: la vendita del corpo è un servizio, i clienti non sono tutti uomini e non sono tutti sfruttatori e carnefici».
Allora come sono gli uomini?
«In modo banale si può dire che gli uomini sono persone. Quindi con bisogni e fragilità. E si sa – o forse no – ma di certo non si dice che ci sono anche molte clienti donne».
Perché si paga per fare del sesso?
«Pagare per molti è una prospettiva allettante perché entra in gioco una dinamica di potere. C’è poi il desiderio di fare qualcosa che di solito non si fa. E poi, il classico: la contrapposizione tra la santa e la puttana. Una sex worker catalana, Concha Borrell, mi ha raccontato che c’era un cliente che chiedeva sempre e solo rapporti orali. Allora gli fa: Perché non chiedi a tua moglie? La risposta sai qual è stata? Mia moglie con quella bocca poi bacia i miei figli».
Hai annotato altre categorie?
«Alcune persone non cercano solo sesso, si sentono sole. C’è anche chi desidera il piacere nel provare nuove esperienze. E poi c’è chi vuole fare sesso».
Perché ci si vergogna di pagare per il sesso?
«Credo che lo stigma della puttana colpisca tutti. E, per effetto, siccome le puttane sono valutate poco, colpisce anche gli uomini che ci vanno. La puttana rompe uno schema, ma anche le regole che una società come la nostra si è imposta. Una sorta di buon costume che viene meno. Il concetto poi si estende agli uomini che si vedono tacciati come soggetti che fanno “qualcosa di basso e volgare”».
La parola “puttana” è considerata offensiva dalle lavoratrici del sesso? Se sì, in che misura?
«Il senso dispregiativo dipende da come si dice e quando. Ecco perché è un periodo in cui la parola maggiormente adottata è quella di sex worker introdotta da Carol Leigh, che a suo tempo aveva coniato l’espressione sex work. Ci sono sempre stati movimenti e associazioni, soprattutto nell’America Latina, che stanno rivendicando l’uso della parola puttana. Loro dicono: “Prendiamo questa parola storicamente usata come insulto per rivendicare la nostra identità”».
Dunque le si riconosce un valore…
«In un certo senso. Ci sono poi persone che si offendono a essere chiamate lavoratrici del sesso, perché per loro non è lavoro. Oppure persone che provano un senso di colpa quando vengono etichettate».
Sei per la riappropriazione del termine?
«Assolutamente sì!».
Nel caso della prostituzione è errato parlare di vendita del corpo?
«Sì, lo è. Non si può vendere il corpo, per farlo dovrei tagliare delle parti e dartele in cambio di denaro. La nostra è una prestazione concordata prima dell’atto, cui segue un compenso e se non rispetti il patto iniziale, quella è violenza. Per me è sbagliato dire che si vende intimità. Chi lavora col sesso è il primo a mettere dei paletti, a dire cosa vuole o non vuole fare. Per dire, molti e molte non baciano sulla bocca: è un gesto ritenuto romantico. Quindi quella cosa lì, durante la prestazione non la mettono in gioco».
Qual è l’approccio delle donne nei confronti di questo mestiere? Tendono a solidarizzare o giudicare?
«Sì, la maggioranza giudica perché crede che le puttane macchino la categoria “donne” in generale. Esistono poi tante altre donne, soprattutto dei movimenti femministi sex-positive, che mostrano solidarietà alle sex worker».
In copertina: INSTAGRAM | Giulia Zollino
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