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«Perché è sbagliato definire la foreign fighter Alice Brignoli “la mamma dell’Isis”» – L’intervista

03 Ottobre 2020 - 11:29 Riccardo Liberatore
Partita da Bulciago in Lombardia nel 2015, Alice Brignoli è tornata in Italia dalla Siria. Un numero crescente di donne si unisce ai gruppi jihadisti. Ne abbiamo parlato con la giornalista e autrice Marta Serafini

Il caso di Alice Brignoli ha riacceso l’attenzione sul ritorno in Europa dei foreign fighters, degli uomini e delle donne partiti per unirsi al cosiddetto Stato Islamico. L’esatto numero non è noto: si dice che siano almeno 40mila persone di cui circa 5mila partite dall’Europa. Non solo uomini, appunto, ma anche donne come Brignoli, che nel 2015 ha lasciato Bulciago in Lombardia in compagnia del marito Mohamed Koraichi, cittadino italiano di origine marocchina, e i loro tre figli minori, per raggiungere i territori occupati dall’Isis.

La presenza delle donne, pur essendo minoritaria, è andata crescendo nei gruppi jihadisti, come spiega a Open Marta Serafini, giornalista e autrice di una storia del terrorismo islamista, L’ombra del nemico (Solferino). Il libro di Serafini, frutto del lavoro di cinque anni sul campo, racconta le storie anche di persone come Brignoli o di un’altra foreign fighter italiana, Maria Giulia, a cui la giornalista ha dedicato un precedente libro.

«Si tratta di un fenomeno paradossale – racconta Serafini – visto che i gruppi jihadisti non riconoscono un ruolo centrale alle donne e non danno loro la possibilità, salvo rare eccezioni, di combattere. Ma nonostante questo sono riusciti ad avere una presa sulle ragazze, soprattutto le più giovani».

Quale ruolo hanno avuto nelle zone di guerra?

«In realtà l’Isis non ha lasciato alcun ruolo alle donne, se non marginale come madri e mogli. Ma abbiamo anche visto le donne dell’Isis assumere un ruolo diverso rispetto ad altri gruppi jihadisti. Per esempio è stato permesso alle donne di fondare una brigata, la brigata al-Khansaa, che ha anche ferito e torturato altre donne. Abbiamo visto come anche il traffico delle schiave yazide sia stato affidato a una donna, la moglie di uno degli emiri di al-Baghdadi».

Insomma, non soltanto vittime ma anche carnefici.

«Nel mio percorso ho sempre cercato di non dipingere le donne in maniera vittimistica. Questo vale sia per le donne che subiscono effettivamente dei torti, ma anche per le jihadiste. Lo abbiamo visto in questi giorni in cui Alice Brignoli è stata descritta come la “Mamma dell’Isis”. Questo approccio è sbagliato: da un lato la giustifica in quanto donna: ma non sappiamo in quale misura abbia aderito all’Isis. Dare per scontato che una donna non possa essere pericolosa, è un errore. E lo dicono tutti gli esperti di intelligence più moderni».

Secondo lei ha senso dire che le donne che si sono unite all’Isis hanno seguito un processo di conversione diverso da quello degli uomini?

«No, credo che da quel punto di vista il processo di affiliazione sia molto simile. Certo la propaganda che cerca di reclutarle punta su cose diverse. Nel caso dei maschi punta di più sull’uso della violenza e delle armi, per esempio, mentre nel caso delle donne punta su altre tematiche, sull’idea di sacrificio, sull’idea di compiere il proprio destino».

Adesso l’attenzione è tornata anche sulla questione delicata della de-radicalizzazione. Si tratta di un obiettivo realistico?

«È molto importante fare attenzione alla prevenzione e quindi capire il ruolo della società civile nell’affiancarsi all’anti-terrorismo. Va bene il controllo ma contemporaneamente bisogna utilizzare gli strumenti della società civile – dagli insegnanti agli operatori nei centri religiosi e di aggregazione giovanile – per favorire il dialogo ed evitare che lo scontro sociale possa acuirsi. Contemporaneamente bisogna stare molto attenti che le comunità musulmane non percepiscono questi programmi come una forma di spionaggio. Per quanto riguarda i programmi di de-radicalizzazione, nel caso dei bambini possono funzionare, mentre con gli adulti tendono ad essere meno efficaci».

Rispetto alla prevenzione in passato in Italia il problema è stato la mancanza di fondi. È ancora così?

«Si, nei fatti non c’è stata la volontà politica di investire, anche perché il numero di foreign fighter in Italia è basso. Si tratta di un atteggiamento miope però perché sappiamo che cresceranno, perché aumenta lo scontro sociale, perché le comunità diventano sempre più grandi e saranno più facilmente ghettizzate. All’ascesa dell’Isis in questi anni hanno contribuito tanti fattori, dall’aumento dell’hate speech al dibattito sull’immigrazione. Del tema purtroppo parliamo solo quando ci sono gli attentati in Europa, per il resto non ci interessa mai. Adesso siamo tutti concentrati sul Covid, ma il problema non è finito».

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