Recovery Fund? Per non sprecarlo dobbiamo puntare sulla ricerca. Ecco perché, cifra per cifra
Nelle ultime settimane si è fatto molto vivo il dibattito sull’impiego del Recovery Fund europeo, sul rilancio dell’Italia e sul suo futuro modello di sviluppo. Mentre è ineludibile l’adesione alle indicazioni europee, quali investimenti in infrastrutture e nell’economia “verde”, ancora molto limitata appare l’elaborazione di idee originali per dare un impulso nuovo alla stagnante economia del Paese.
In questo contesto si inserisce questo nostro contributo come membri della comunità scientifica della Federazione Italiana Scienze della Vita (che federa sedici società scientifiche italiane, raggruppando circa 8.000 ricercatori italiani) sulla ricerca scientifica concepita come componente necessaria di un piano di crescita che permetta al nostro paese uno sviluppo economico moderno e l’inserimento dell’Italia fra i Paesi trainanti della crescita mondiale.
Gli effetti positivi sul Pil
La gran parte delle nazioni occidentali evolute spende assai più di noi in ricerca e innovazione, ma anche molti ex Paesi in via di sviluppo hanno investito con grande successo nell’impresa scientifica per sospingere la loro economia. Infatti è stato dimostrato che nei Paesi in via di sviluppo un aumento dell’1% della sola spesa per ricerca aumenta le esportazioni di beni ad alta tecnologia del 6,5% e accelera la crescita economica complessiva dello 0,43%. Inoltre, è stato calcolato che ogni punto percentuale del Pil investito nella ricerca produce un aumento dello stesso Pil del 2,2%. E in tempi piuttosto brevi, qualora ciò avvenga in Paesi industrialmente sviluppati come il nostro.
Del resto la logica elementare, i modelli economici e le rilevazioni empiriche mostrano che la ricerca scientifica produce tecnologie e sapere nuovi, consentendo di aumentare la produttività e la produzione e quindi di far crescere l’economia. Inoltre la ricerca genera scoperte e invenzioni che possono aprire settori produttivi interamente nuovi. Senza parlare delle grandi rivoluzioni scientifico-tecnologiche: gli effetti economici dello sbarco sulla Luna, del sequenziamento del genoma umano e della rivoluzione informatica sono stati enormi. Si tratta di eventi scientifici e tecnologici epocali, cui però l’Italia ha dato contributi minimi.
I Paesi virtuosi
Nonostante l’opinione unanime degli economisti sulla redditività degli investimenti in ricerca, l’Italia continua da decenni a trascurare, finanziare insufficientemente e frustrare la ricerca scientifica e tecnologica. Poche cifre sono sufficienti a sostanziare questa affermazione. L’Italia spende l’1,4% del proprio Pil in ricerca e sviluppo, solo i due terzi di quanto fanno in media i Paesi europei (2.2%) e molto meno delle nazioni più virtuose, come:
- Israele 5%
- Corea del Sud 4,8%
- Svezia e Giappone 3,3%
- Austria e Germania 3,1%
- Usa, Belgio e Finlandia 2,8%
Gli scarsi investimenti in ricerca si riflettono sull’economia del Paese. Pur essendo una nazione manifatturiera, l’Italia esporta per lo più prodotti a basso contenuto tecnologico, mentre quelli ad alta tecnologia assommano solo al 7,5% del totale delle vendite estere. Per i Paesi che investono molto, i valori sono ben diversi:
- Israele 22,8%
- Corea del Sud 32,4%
- Svezia 14,4%
- Giappone 17,3%
- Austria 11,6%
- Germania 15,8%
- Usa 18,9%
- Belgio 10,4%
- Finlandia 8,9%
A sua volta, la nostra relativa povertà tecnologica si riverbera sulla formazione e sull’impiego dei giovani. Solo il 27,4% degli italiani fra i 25 e i 34 anni ha un titolo universitario superiore (almeno una laurea magistrale), a fronte del 44,9 della media dei Paesi Ocse. Anche qui è istruttivo guardare alle nazioni che investono maggiormente in ricerca:
- Israele 47%
- Corea del Sud 68,9%
- Svezia 48,4%
- Giappone 61,5%
- Austria 41,6%
- Germania 33,3%
- Usa 50,4%
- Belgio 47,3%
- Finlandia 41,8%
Non solo l’Italia possiede di gran lunga meno laureati della maggior parte dei Paesi Ocse (eccezioni: Messico, Brasile, Indonesia e Sud Africa) ma, nonostante ciò, fatica a trovare loro un impiego. Ciò significa che il tessuto produttivo del Paese, a causa della sua scarsa innovatività e del modesto contenuto tecnologico, ha una necessità limitata di persone con istruzione avanzata. Questo a sua volta genera scarso interesse per un’educazione superiore – da cui il modesto numero di laureati e l’arretratezza culturale degli italiani – e la fuga verso l’estero dei giovani che una laurea o un dottorato l’hanno ottenuto, ma non trovano in patria occasioni per costruire la loro vita.
Una proposta da difendere
Il Recovery Fund ci dà l’opportunità di trasformare la crisi della Covid-19 in un profondo rinnovamento del nostro Paese. A tale riguardo la Fisv vede con grande entusiasmo il documento che sta circolando sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che tra le misure proposte include quella di portare la spesa per ricerca e sviluppo dall’attuale 1,3% al 2,1% del Pil. Ovviamente siamo d’accordo. Questa è una misura assolutamente indispensabile per investire bene i soldi messi a disposizione da parte dell’Europa. Speriamo che questa proposta non venga all’ultimo momento erosa da altre richieste. Il rischio c’è, visto che la ricerca nelle finanziarie degli ultimi venti anni è sempre stata bistrattata e decurtata all’ultimo momento. Ma questo non basta.
Il Pnrr si propone di investire sui giovani, di finanziare di più la ricerca di base, di istituire ecosistemi di innovazione, di potenziare le infrastrutture tecnologiche. Va bene, siamo d’accordo sulla necessità di lavorare su questi aspetti, ma non dimentichiamoci che, se queste misure non verranno accompagnate da un alleggerimento delle regole burocratiche, dalla messa a punto di nuove modalità per assicurare trasparenza e regolarità nella erogazione di finanziamenti ai progetti di ricerca, da politiche salariali e contrattuali più attrattive per i nostri giovani talenti, rischieremo di non cambiare nulla e sprecare un’occasione imperdibile di rilancio.
Sentiamo dire che i ministeri hanno proposto progetti da finanziare col Recovery Fund, spesso di medie e piccole dimensioni, per un valore più che doppio rispetto ai 209 miliardi che dovremmo ricevere. Non possiamo e non dobbiamo sprecare il Recovery Fund, ma concentrarlo su finalità che ci prospettino un futuro diverso e migliore.Dobbiamo ripensare radicalmente il nostro modus operandi, creando sistemi agili e nuovi. L’investimento nella ricerca scientifica e nell’innovazione può dare dividendi altissimi, purché effettuato con intelligenza, lungimiranza e chiarezza di obiettivi per il rilancio post Covid-19.
Società scientifiche federate in FISV e co-firmatarie
- Associazione antropologica italiana (AAI).Associazione di biologia cellulare e del differenziamento (ABCD)
- Associazione genetica italiana (AGI)
- Società italiana di biochimica e biologia molecolare (SIB)
- Società italiana di biofisica e biologia molecolare (SIBBM)
- Società italiana di biologia evoluzionistica (SIBE)
- Società italiana di biologia vegetale (SIBV)
- Società italiana di chimica agraria (SICA).Società italiana di farmacologia (SIF)
- Società italiana di fisiologia (SIF).Società italiana di genetica agraria (SIGA).
- Società italiana di genetica umana (SIGU).Società italiana di mutagenesi ambientale e genomica (SIMAG)
- Società italiana di microbiologia generale e biotecnologie microbiche (SIMGBM)
- Società italiana di patologia e medicina traslazionale (SIP MET)
- Società italiana di patologia vegetale (SIPaV)
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