«Non diteci “bravi”: scendete in piazza con noi», l’appello dei Fridays For Future a chi ancora non riesce a prenderli sul serio – L’intervista
Non chiamatelo amore per la natura ma preoccupazione per una crisi presto irrimediabile. Questo è quello che i ragazzi di Fridays for Future ripetono a chi chiede loro delle motivazioni per cui oggi, 9 ottobre, scenderanno in piazza e sciopereranno chiedendo giustizia climatica. A 20 anni provare a ripetere al mondo i pericoli di una crisi già in corso può essere faticoso, soprattutto se non ci si sente presi sul serio. Ma la rabbia per un futuro dalle prospettive allarmanti porterà i ragazzi anche oggi ad avvertire su un’urgenza che non può aspettare ancora molto. Tra questi anche Barbara Mezzalama, 20 anni, di Torino, attivista della prima ora del movimento ispirato all’azione della giovane svedese Greta Thunberg, che prova a parlare ai suoi coetanei e a tutti quelli che ancora «non hanno capito che tutto questo non è uno scherzo».
Barbara, avete più volte dichiarato che l’intenzione di scendere nuovamente in piazza è anche «affinché le problematiche della pandemia non mettano in ombra l’emergenza della crisi climatica». Vi sentite messi da parte?
«No non si tratta di personalismi ma di una priorità che non può non avere lo stesso valore. La pandemia da un lato ha messo in evidenza la precarietà umana. Siamo abituati a vivere come dominatori del pianeta. e questo momento ci ricorda di quanto in realtà siamo una specie come tante altre. Senza contare la dimostrazione che l’isolamento ci ha dato di quanto il nostro sia un sistema tossico che soltanto attraverso un cambiamento collettivo potremmo realmente modificare. Abbiamo vissuto la stessa cosa con la pandemia, non è bastato e non basta che una persona sola resti a casa o rispetti le regole. Dall’altra parte, le problematiche relative al virus hanno rappresentato per chi ci guida l’ennesima occasione per sottovalutare e mettere in terzo e quarto piano un’emergenza tutt’altro che lontana da quello che viviamo quotidianamente».
Per cosa scendete in piazza?
«A livello nazionale vogliamo che la crisi climatica ed ecologica diventino le priorità di questo governo. La transizione ecologica può avvenire solo con una presa di coscienza da parte di chi ci governa e una conseguenziale prontezza all’azione».
Su cosa non vi sentite ascoltati?
«Su tutto. Vediamo come tante decisioni vadano verso una direzione esattamente contraria alle nostre richieste. Basti pensare ai finanziamenti salvagente fatti a Fca, alla formazione dei docenti per l’insegnamento dell’educazione ambientale nelle scuole delegata in molti casi a Eni, che sappiamo essere una tra le 100 aziende responsabili del 71% di emissioni nell’aria di Co2. Questi sono alcuni degli esempi molto chiari di come non ci sia alcuna comprensione del problema. Una comprensione, più che del nostro movimento, della crisi in generale».
Cosa proponete?
«Una delle richieste fondamentali è quella della giustizia climatica».
Che vuol dire?
«Una giustizia sociale che tenga conto della crisi ambientale che stiamo vivendo. E quindi la tutela da parte del governo dei migranti climatici, la tutela attraverso fondi e finanziamenti di quelle persone che perderanno il lavoro a causa della chiusura di industrie inquinanti che dovranno essere riconvertite o appunto chiuse. Persone da non lasciare indietro, così come tutto il sistema agro alimentare, che deve diventare più locale e sostenibile, eliminando l’elemento distruttivo a cui abbiamo assistito in questi anni. E poi non ultimo il diritto alla salute, che non può prescindere anche dal fattore climatico».
A questo proposito Torino e la Regione Piemonte sono state tra le realtà territoriali più colpite dall’ondata distruttiva di maltempo di qualche giorno fa, insieme a Lombardia e Liguria. Cosa pensate non si stia facendo abbastanza a livello locale?
«Eventi estremi come quelli a cui stiamo assistendo non possono essere solamente fenomeni di maltempo. La crisi climatica inizia a manifestarsi in maniera sempre più potente e questo non è ancora nulla. Lo abbiamo visto durante l’estate con Palermo, qualche giorno fa qui in Piemonte e in altre Regioni. Ci sono stati morti e danni disastrosi che potevano essere evitati attraverso azioni preventive, soprattutto nelle zone lungo i fiumi. Ci arrivano enormi quantità di acqua in pochissime ore, grandini, alluvioni, e troppo spesso ultimamente siamo qui a dire “non chiamatelo maltempo”.
In questo hanno responsabilità anche i media. Il racconto non tiene conto abbastanza della reali cause di quello che sta succedendo. La grandine del Vercellese di un anno fa è un fatto eccezionale ed è doveroso riconoscerlo come tale. Dire che è maltempo è sviare l’attenzione da un problema».
La ministra Azzolina vi ha chiesto di modificare l’orario dello sciopero spostandolo al pomeriggio. Avete la sensazione di non essere presi abbastanza sul serio?
«La richiesta della ministra ci ha suscitato un misto di amarezza e ironia. Fa ridere che un ministro si prenda la briga di chiedere un cambiamento di orario per uno sciopero che così perderebbe il suo senso. È l’ennesima dimostrazione della mancata comprensione che siamo in una crisi, nessun ministro si sarebbe sognato di mandare una mail in tempo di pandemia e di lockdown dicendo agli studenti di uscire di casa e andare a scuola.
Con la crisi climatica invece ci si sente in diritto di poter aver un approccio superficiale. Dare priorità alla scuola rispetto alla consapevolezza dell’importanza di un’emergenza che riguarda tutti non vuol dire sempre tutelare l’educazione dei giovani. Che può e deve passare anche tramite impegni sociali e collettivi del genere. Anche questa è scuola».
Non vi sentite presi abbastanza sul serio. Avete mai pensato a possibili passi sbagliati commessi in prima persona?
Mettersi in discussione è uno dei punti saldi per agire in maniera costruttiva. Quello che percepiamo è un errore, considerato tale certo non da noi, nella scelta di come comunicare la nostra urgenza. Non usiamo la violenza, non scendiamo in piazza creando danni, non usiamo toni offensivi, insomma non rappresentiamo un pericolo. La nostra identità è questa e non pensiamo che gli strumenti alternativi al modo pacifico di agire siano strade percorribili in alcun modo, ma la tendenza che percepiamo è quella di infantilizzare la nostra azione politica e sociale.
La grossa componente di persone che vanno ancora a scuola è stata spesso strumentalizzata nel racconto fatto del nostro movimento. Il fatto che siano giovani o meno giovani a scendere in piazza diventa irrilevante se i contenuti hanno l’urgenza che hanno».
L’ondata mondiale della lotta per il clima ha portato di nuovo migliaia di giovani in piazza come non se ne vedevano da anni. Un aspetto difficile da non notare.
«Naturalmente, ma questo tipo di narrazione, legittimata di più forse nei periodi iniziali dell’azione globale, ha preso il sopravvento anche per il dopo. Ed è tuttora così. La ministra Azzolina ne è la prova».
Chi è il vostro obiettivo? I singoli o i leader?
«L’azione del singolo è quasi ininfluente, ci sono diversi studi che dimostrano quanto anche la persona più attenta all’ambiente, che riduce al minimo il proprio impatto sul pianeta, non riuscirebbe a scongiurare il pericolo. Solo un’azione collettiva può farlo e non è rilevante se questo parta dal basso o dall’alto. Quello che è certo è che il cambiamento deve essere sistemico e in questi i capi hanno molta più responsabilità.
Per far questo è necessario il coinvolgimento di più persone possibili. Spesso ci sentiamo visti come una categoria a parte, come quelli che hanno deciso di abbracciare una causa “per pochi”. Non vogliamo sentirci dire che siamo bravi per il nostro impegno ma vorremmo che le persone che ci applaudono siano con noi nelle singole assemblee, a tutte le occasioni di azione collettiva e non solo nel singolo evento in piazza, o ancor peggio da lontano».
Avete definito la crescita economica verde dell’Agenda europea «una bella favola». Non guardate al Green Deal come una prospettiva di azione sufficiente?
«Assolutamente no. Basti pensare all’obiettivo più prossimo della riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030. È uno step altamente insufficiente per garantire un intervento efficace nella corsa contro il tempo verso la distruzione del pianeta in cui viviamo. Dunque non si parla di insoddisfazione di un movimento per l’ambiente, né di visioni politiche. Gli obiettivi europei sono al momento inefficaci per garantire la vita, punto.
A questo proposito la nostra campagna Eci, rivolta a tutti i cittadini europei, al momento ha raccolto quasi 70.000 mila firme. Un’azione diretta nei confronti della Commissione europea che stimoli verso regole più rigide nella lotta comune ai disastri climatici. Uno fra tutti l’obbligo di nessun trattato di libero scambio con i paesi che non seguano percorsi compatibili con il limite di riscaldamento di 1.5° C».
Difficile essere ascoltati. Quanto entusiasmo è rimasto ancora nel serbatoio? E cosa dire ai giovani lontani dalla causa che sostenete?
Il percorso di crescita e di consapevolezza di quello che ci sta succedendo e quello che succederà ci porta ad uno sconforto reale sulle prospettive future di ognuno di noi. Difficile immaginare dei giorni rosei se quello che sai riguardo ai prossimi anni parla di crisi e di disastri a cui stiamo andando incontro senza batter ciglio. D’altro canto è la lotta che ci anima. Se non raggiungeremo 100, quello che riusciremo a fare sarà comunque meno di zero. E la rabbia che abbiamo nei confronti della superficialità che ci circonda ci è ancora di stimolo, per fortuna, positivo».
E ai giovani?
«Vorrei dire loro che fare attivismo non è roba per pochi, e che la causa di cui stiamo parlando li riguarda per ogni singolo desiderio e sogno che hanno in serbo per il prossimo futuro. Lottare insieme per una causa giusta fa sentire meno soli».
Foto in copertina: Barbara Mezzalama
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