Scorretto, vintage, virtuale: il grande ritorno del dibattito nella politica americana. Ma è ora di cambiare il format
Che siano specchio del disordine che ha portato Trump nella politica americana – come nel caso del primo dibattito tra il presidente e lo sfidante Biden – o la riproposizione vintage di come erano prima del suo arrivo, una cosa è certa: a meno di un mese dal voto che deciderà il futuro presidente, i dibattiti sono ritornati centrali. Manca una settimana al prossimo confronto e – nel giro di poche ore – abbiamo appreso che, data la positività di Trump al Coronavirus, sarà virtuale ma che il presidente non parteciperà e, anzi, organizzerà un comizio. Infine Joe Biden – dapprima “impaziente” di sfidare da remoto l’avversario – ha dichiarato che, al posto del dibattito, risponderà direttamente alle domande degli elettori.
Da qui al 15 ottobre potrebbe cambiare ancora tutto, ma i dibattiti del 2020 restano il caleidoscopio di quello che è diventata la politica americana e, forse, di ciò che potrebbe essere (di nuovo). Come ha scritto Politico, l’incontro tra il vicepresidente Mike Pence e la candidata democratica alla vicepresidenza Kamala Harris è servito a ricordarci come erano i confronti prima di Trump: istituzionali, plastici, un po’ noiosi, senza vincitori chiari né sconfitti (il solo fatto che del loro incontro resteranno la mosca che vola sul capo di Pence e il «Signor vicepresidente, sto parlando io» di Harris dice tanto). Ma anche come potrebbero tornare a essere quando Donald Trump lascerà la Casa Bianca.
Di sicuro, al di là dei fedelissimi del presidente, tutti sono convinti che se dibattito tra Trump e Biden ci sarà, dovrà essere diverso dal primo. E la decisione di farlo virtuale presa della commissione indipendente che li organizza – da giorni impegnata a trovare un modo per obbligare il presidente a seguire le regole – si è rivelata fin da subito fallimentare.
Mark Thompson, ex amministratore delegato del New York Times e della BBC, e autore de La fine del dibattito pubblico (Feltrinelli) lo spiega così: «Il primo sembrava un incontro di wrestling, una cosa tutta di istinto, dove Trump era un primate il cui unico obiettivo era dimostrare la debolezza di Biden».
Per Thompson il problema sta nella struttura: «Immagina di essere un arbitro di tennis. A un certo punto uno dei due giocatori rompe tutte le regole e per entrambi va bene così. Tu sei lì che li vedi giocare senza regole e non puoi fare nulla». La presenza del moderatore si basa sul principio che le persone siano d’accordo a essere moderate: «Ma Trump – insiste Thompson – non vuole assolutamente essere moderato. Non ha ascoltato nulla, sembrava arrabbiato per il solo diritto di parola di Biden. Lui odia che qualcuno gli dica cosa fare, sentirsi dire frasi come “Dillo, condanna, ripeti” lo porta in automatico a pensare: “Perché dovrei fare quello che dici tu?”». Il risultato è che anche Biden – esempio di politico tradizionale, quasi da secolo scorso – è scivolato negli insulti e nelle offese contro l’avversario.
È il formato stesso di dibattito che andrebbe totalmente ripensato: «Quello che vediamo in televisione è vecchio e totalmente inadeguato a rappresentare un discorso politico sporco, rude e “di pancia” come l’attuale. A partire dal setting: i podi, il moderatore seduto dietro una scrivania a un’altezza inferiore rispetto ai candidati, i candidati in piedi immobili. Che senso ha? Immagini se il moderatore fosse stato in piedi: forse avrebbe avuto la possibilità di andare da Trump e dirgli “Ehi, è ora che la smetti di fare così”, di avere maggiore controllo della situazione».
Il rischio però è che in una situazione come quella attuale «qualsiasi cambiamento verrebbe strumentalizzato, ogni cosa politicizzata: se ad esempio si decidesse di spegnere i microfoni quando uno dei due esagera, nel caso di Trump diventerebbe automaticamente “Vogliono silenziare il presidente”. Ogni cambiamento rischia di dare adito a una teoria cospirativa». La strada per il 3 novembre è ancora molto lunga.
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