Coronavirus, i numeri in chiaro. La fisica Paolotti: «Lockdown in Lombardia ora, per non chiudere poi tutto il paese»
16 mila nuovi contagi in un solo giorno. 136 vittime, e ieri erano 127. I numeri del contagio da Coronavirus in Italia tornano a fare paura. Il timore è di finire tra poco, pochissimo, nella stessa situazione della Francia, che ha superato un milione di casi e con almeno 25 mila contagi al giorno – mille all’ora. Oggi il record assoluto con 40.622 nuovi positivi in un giorno.
Daniela Paolotti, fisica della Fondazione Isi: stiamo andando nella stessa direzione della Francia?
«Sicuramente tra due o tre giorni saremo a 20 mila. Il numero al momento raddoppia ogni sette giorni. Due settimane fa eravamo infatti a un po’ meno di 5mila nuovi casi al giorno. Sabato e domenica abbiamo superato quota 10 mila: il prossimo weekend toccheremo quindi sicuramente i 20 mila. Anche perché le nuove misure messe in atto dal governo e dalle Regioni non possono ancora avere un effetto, sono state varate da poco tempo e per vedere dei risultati ci vogliono almeno due-tre settimane. Se se ne vedranno…»
In che senso?
«Prima di piegare questa curva ci vorrà del bello e del buono».
Le misure del nuovo Dpcm e le ulteriori strette introdotte dalle regioni sono adeguate o bisognerà chiudere ancora di più?
«Probabilmente ci sarà necessità di stringere un po’ perché ora le misure si concentrano su momenti della giornata e della settimana in cui si sa che i contatti sono ridotti: la sera e il weekend, in maniera naturale, le persone hanno meno contatti rispetto alla giornata lavorativa. Quindi al momento stiamo andando a toccare una parte della vita sociale che non è quella maggiormente responsabile di tutti i contagi che stiamo vedendo.
Sicuramente si dovrà incoraggiare di più lo smart working, lo stare a casa e ridurre il più possibile tutti gli eventi che aggregano le persone in modo non indispensabile e non necessario. E poi ci sarà probabilmente necessità di qualcosa di più aggressivo per le scuole. Ora in alcune regioni come nel Lazio hanno messo i ragazzi del triennio in didattica a distanza al 50%. Probabilmente dovranno farlo anche in altre regioni o per altre fasce di età scolare. Non lo sappiamo.
Bisogna vedere per la prossima settimana la reazione del sistema, che ha questa inerzia enorme alle misure messe in atto fino a qualche giorno fa. E poi ci si aggiusta. Sapendo purtroppo che quando si mette in atto una misura, prima di dieci-quindici giorni non se ne vede effetto. E se quindi non è una misura sufficiente, intanto è passato quel tempo e le cose sono peggiorate».
E la montagna è diventata sempre più ripida.
«La velocità di crescita della curva è leggermente più lenta di quella di marzo. Allora in una settimana allora i casi quadruplicavano, ora raddoppiano. Ma la direzione è più o meno la stessa».
Il rapporto casi-tamponi è al 9,4%, in rapida crescita. Cosa vuol dire?
«Vuol dire che stiamo avendo più casi che circolano rispetto a quanti riusciamo a trovarne. Abbiamo leggermente aumentato i tamponi, ma i casi che scopriamo sono comunque molti di più. Quindi il rapporto tra tamponi e positivi cresce perché i positivi crescono in modo molto più rapido di quanto noi aumentiamo i tamponi. Da quest’estate ad adesso i tamponi non sono aumentati più di tanto, mentre i positivi sì.
Quando si dice che oggi ci sono più casi perché facciamo più tamponi si dice una cosa non corretta. Non è assolutamente vero. Lo sarebbe se le due voci fossero proporzionali e crescessero nello stesso modo. Invece i casi dei positivi aumentano molto più velocemente. E poi morti e terapie intensive sono indipendenti dal numero di tamponi che si effettua: lo abbiamo sempre detto. E hanno lo stesso rate di crescita dei casi positivi».
Quando si è persa la tracciabilità?
«Da tempo. È difficile stimarlo, ma analizzando i dati a metà-fine settembre la situazione era ancora abbastanza sotto controllo. L’accelerazione dei nuovi casi ma anche delle terapie intensive è stata registrata ai primi di ottobre. È come se, nella prima settimana di ottobre, avessimo stappato una bottiglia che avevamo agitato fino a quel momento: e l’accelerazione è partita. Si è restii a dirlo, ma è guarda caso tre settimane dopo la riapertura delle scuole.
Purtroppo, siccome non è facile reperire i dati sulle scuole, è difficile stimare qual è il contributo nella circolazione del virus. Ma è inevitabile pensare che 8 milioni di studenti che sono tornati a frequentare le scuole in presenza, in stanze che sono sempre le stesse, pur distanziati con i banchi singoli ma comunque in aggregazione oltre le ore scolastiche, bravi e disciplinati ma sono ragazzi… ecco, tre settimane dopo la riapertura delle scuole, assistiamo a questa accelerazione. Sarebbe bello avere dati sui casi negli istituti per poterne stimare il contributo alla circolazione del virus».
Potevamo accorgercene e fare qualcosa, a fine settembre?
«Probabilmente sarebbe stata necessaria una pianificazione antecedente. D’estate c’è stata la speranza che l’autunno non avrebbe picchiato così duro. Era illusoria. Che l’autunno avrebbe picchiato duro si sapeva e certamente ci si sarebbe potuti organizzare meglio a livello di trasporti pubblici, di ingressi scaglionati nelle scuole (ma non al quarto d’ora: scaglionati di ore, su tutta la giornata).
Strategie per riaprire in autunno in maniera più graduale e vedere se la situazione reggeva. Invece siamo tutti e tutte tornati a lavorare, fare shopping, andare a scuola come se nulla fosse successo. Pur avendo comportamenti individuali adeguati, con le mascherine e il lavaggio delle mani. Quindi metà settembre probabilmente era già tardi: bisognava pianificare tutto questo molto prima»
A questo punto rischiamo un nuovo lockdown? O comunque sarebbe auspicabile?
«Si spera che misure mirate nelle grandi città o nelle zone più colpite possano essere sufficienti a piegare in qualche modo l’andamento della curva in modo da non arrivare all’oppressione del sistema sanitario che c’era a marzo. È ancora possibile, ma bisogna veramente agire subito e in modo draconiano e mirato per evitare il lockdown generalizzato, che probabilmente a questo punto non è nemmeno chiaro a quanto potrebbe servire.
Perché ci sono zone – poche – che se la stanno cavando bene, ed è più opportuno optare per interventi che vadano in qualche modo a tamponare la situazione dove serve. Per esempio Milano e la Lombardia sono in una situazione diversa rispetto ad altre regioni, e quindi forse in quel caso si deve fare qualcosa di più estremo subito, piuttosto che arrivare alla serrata nazionale perché la situazione è precipitata dappertutto».
Quindi potrebbe avere senso chiudere ora Milano e la Lombardia?
«Esatto».
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