La leadership femminile nella Sanità? Farebbe bene a tutto il Paese
Sono il 70% della forza lavoro nel settore sanitario, dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma solo il 25% di loro occupa posizioni di leadership in Europa. In Italia poi va ancora peggio: le donne sono il 63,8% del personale dipendente, quasi il doppio degli uomini, secondo i dati del 2019 dell’Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario Italiano OASI. Ma solo il 16,7% è in direzione generale. E ancora: le donne sono il 44% tra i medici delle aziende pubbliche del Sistema Sanitario Nazionale, dice una ricerca della Bocconi. Ma poi ricoprono solo il 17% dei ruoli di direttore di struttura complessa.
Dati e storie alla mano quello sanitario, così al centro delle cronache in tempi di pandemia di Coronavirus, è ed è sempre stato tra i settori più complessi per l’affermazione delle donne a livelli dirigenziali e medici. Per anni, anzi decenni, qui le differenze di genere hanno pesato nell’accesso delle sale operatorie e nei board dei decisori.
«L’equità di genere nel mondo lavorativo (non in particolare nella chirurgia, ma in generale) verrà raggiunta tra 70 anni, dice a Open Isabella Maria Frigerio, co-founder di Women in Surgery Italia e chirurga pancreatica. «Un bilancio che potrà avere tutte le varianti del caso… Ma insomma, vede bene che i dati del Global Gender Gap Report sono agghiaccianti. E nel frattempo l’Italia sta retrocedendo, nonostante il tema dell’equità di genere sia nell’agenza pubblica», chiosa.
Campagne e attivismi
Specialista in Chirurgia generale dal 2004, Frigerio si occupa dal 1999 di chirurgia del pancreas e approccio multidisciplinare alla patologia pancreatica. Non solo la chirurgia, dunque, ma quella del pancreas, ancor più regno di soli uomini. Dirigente Medico a tempo indeterminato a Peschiera del Garda, in Veneto, Frigerio è una delle firmatarie del “Manifesto per un maggiore equilibrio di genere in Sanità”, consegnato nei giorni scorsi dal network Donne Leader in Sanità al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
«Un punto di arrivo», spiega. E di ripartenza: il manifesto intende promuovere il talento al femminile in ruoli di Top e Middle Management pubblico e privato in Sanità. L’anno in corso, dice la chirurga, «servirà per lavorare sulle carte e sui progetti e sulle modalità per passare dalla teoria a delle proposte pratiche, che è quello che in genere è più difficile fare. È uno dei grossi limiti della rappresentanza di genere, dalla sanità a qualsiasi altro ambito lavorativo sociale: passare dall’idea alla reale equità nella pratica quotidiana».
Il network è nato a febbraio, alla vigilia dello scoppio dell’emergenza sanitaria, per «promuovere la leadership al femminile nel settore sanitario e favorire il superamento delle disuguaglianze di genere». E il manifesto è rivolto ad aziende e istituzioni: si propone di modificarne le policy e istituirne di nuove per arrivare nei prossimi 5 anni alla percentuale di almeno il 40% delle donne nei ruoli di top e middle management delle organizzazioni sanitarie pubbliche e private. Un obbiettivo che, dicono le promotrici, è certamente una sfida, ma raggiungibile.
Di certo, è anche complicato. «Perché non dipende solo da noi, dipendiamo da terzi: dalle infrastrutture, dalla legislazione vigente, dalla diffidenza che c’è», dice a Open Isabella Frigerio. «Sembra quasi che si vada a chiedere qualcosa che non è dovuto e soprattutto che, se non è già in nostro possesso, allora non è meritato. Il lavoro è molto complesso articolato».
Perché farebbe bene a tutt*
Alcuni numeri balzano agli occhi dell’opinione pubblica in questi lunghi mesi di emergenza sanitaria: normalmente ignorati dai media, ma che il Coronavirus ha reso meno invisibili. Si è scoperto quindi che, secondo quanto riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel marzo del 2019, 7 operatori sanitari su 10 in tutto il mondo sono donne. Donne però gestite da uomini, giacché meno di 3 su 10 occupano una posizione di leadership.
Parità di genere e riconoscimento dell’emancipazione femminile sono obiettivi condivisi dalle Nazioni Unite, che inserisce il superamento del gender gap tra gli obiettivi fondamentali dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Basti poi dire che, come sottolineano le promotrici del Manifesto, «secondo alcune stime di Banca d’Italia, se il nostro Paese avesse gli stessi livelli di occupazione femminile di altri paesi europei, il Pil nazionale aumenterebbe del 7%». Ci guadagnerebbero tutte e tutti.
«C’è una cosa che ho imparato, anche grazie all’esperienza dell’associazione delle donne chirurghe: molti cambiamenti richiedono un tempo assai lungo. E l’intervento “artificiale”, se vogliamo chiamarlo così, ha semplicemente l’effetto di accelerare un processo comunque in corso: i numeri dicono che ci saranno sempre più donne con una capacità, titoli di studio, esperienze lavorative che magari 30 anni fa non erano neanche ipotizzabili», ragiona Isabella Frigerio.
«Questa numerosità di donne competenti piano piano entrerà nel mondo del lavoro e da lì scalerà i vari gradi fino ad arrivare alle apicalità: ma questo richiederà un tempo molto lungo. Oltretutto questa stessa gradualità nello scalare i ruoli apicali non è garantita solo dai numeri: ci sono paesi in Nord Europa dove le donne arrivano a ruoli subapicali, ma questo non consente il salto all’apicalità».
Il processo è complesso, insomma, «ma una cosa è certa: fior fior di pubblicazioni, soprattutto in ambito medico, dimostrano come la presenza di donne in ruoli di leadership dà più chance di aprire le porte della scalata professionale anche ad altre donne, rispetto all’avere sempre e solo rappresentanti di genere maschile come leader. È in ogni caso un arricchimento».
La legge e il cambiamento culturale
In Italia esiste la legge 120/2011 – la cosiddetta Golfo-Mosca. Fino al 31 dicembre 2019, in sei anni di sua applicazione, il nostro paese è passato a oltre il 36% della rappresentanza femminile nelle società pubbliche e quotate: partiva da meno del 6%. Non è scattato però – non ancora – l’auspicato «effetto a pioggia»: quel circolo virtuoso per cui le donne in posizione apicale dovrebbero sostenere a loro volta la carriera di altre colleghe. La legge Golfo-Mosca «impone il rispetto delle quote rose come obbligo. Ma qui ci vuole un salto culturale, di concezione, di equità, dei generi femminile/maschile come complementari e non uguali. Nessun cambiamento di questa portata può arrivare dalla sera alla mattina», commenta Frigerio.
E la pandemia? «Dal punto di vista dell’equità di genere è stato un disastro. L’attività di cura, domestica e ospedaliera è stata a carico delle donne, in una realtà in cui il 70% del personale sanitario è rappresentato da donne che si sono ritrovate a dover lavorare e occuparsi dei figli e dei genitori anziani in un momento in cui il gap di lavoro domestico è ancora realtà», ragiona Isabella Frigerio. Emerge un problema sociale enorme: «la pandemia ha fatto sì che tutti i lavoratori precari, che nella maggior parte dei casi sono donne, rimanessero a casa. Anche questo ha creato uno sbilanciamento: e sappiamo che quella economica è uno dei primi fattori dell’indipendenza sociale ed emotiva».
Ne usciremo migliori? «Sarebbe bello, ma non ho tante aspettative: non mi sembra che sia questo l’orientamento. Pensiamo solo che c’è stato bisogno di intervenire attivamente affinché nel Comitato Tecnico Scientifico ci fossero anche figure femminili: come se fosse impossibile trovare un’esperta donna. Non siamo ancora pronti. Anzi: non sono ancora pronti. Noi lo siamo da un po’», chiosa la chirurga.
Diventare chirurga
«Non rivesto un ruolo apicale, non sono una primaria. Mi occupo di chirurgia del pancreas, considerata una chirurgia addominale di un alto grado di complessità». Le problematiche che può incontrare una donna che decida di intraprendere questa strada sono differenti rispetto a quelle che si frappongono sulla via di un collega uomo. Ma qualcosa sta cambiando.
L’Associazione Women in Surgery Italia (WIS Italia), il capitolo italiano di un network internazionale presente in numerosi Paesi del Nord America e dell’Europa, nasce nel 2016. La prima presidente è proprio Frigerio, fondatrice di WIS Italia con la dottoressa Gaya Spolverato. «L’occasione è stata quella di un complesso intervento chirurgico gestito da una equipe al 100% femminile. È stato un traguardo», racconta. «Ci siamo ritrovate in sala operatoria, guardate negli occhi e ci siamo dette: Signore, qui qualcosa è cambiato». Il percorso è progredito al momento fino all’attuale riconoscimento del ruolo di chirurga autonoma senior: fino a non molti anni fa era un’utopia, dice ancora la chirurga.
«È stato complesso, ed è stata necessaria da parte mia la decisione di voler percorrere questa strada a tutti i costi. Avere idee chiare sul punto di arrivo: diventare una chirurga, mestiere che è sempre stato considerato da chi osservava dall’esterno, incompatibile con una famiglia, dei figli, una vita “normale”», racconta ancora. «Sicuramente ha richiesto delle rinunce. Alcuni ostacoli erano prevedibili, altri no. Però la decisione di intraprendere questo percorso mi ha fatto un po’ da paracadute». E poi l’esperienza all’estero: «Sono stata in Australia un anno, un paese che all’epoca aveva qualcosa da insegnare all’Italia, e quindi sicuramente sono rientrata con una consapevolezza del mio ruolo di chirurga nel futuro che qui non avrei guadagnato».
Frigerio si dice fortunata, nessuno le ha mai messo i bastoni tra le ruote. Ma no, naturalmente non si è fatta mancare un grande classico per donne-ai-colloqui-di-lavoro: quando, invece di sentirsi chiedere che interventi fosse in grado di fare, si è sentita domandare quanti figli avrebbe voluto.
E poi? «Diciamo nessuna conseguenza: ho avuto una proposta migliore da un’altra parte e il problema non si è posto (sorride). Di certo, nel posto dove sono andata – lo stesso dove lavoro tuttora – sono stata la prima chirurga ad avere figli. Neanche il primario sapeva bene cosa fare, era la prima volta anche per lui. Qualcosa faremo, mi ha detto. È stato un po’ come scoprire la versione moderna della figura della chirurga: diversa da quella di 20, 30 anni fa, quando una donna doveva “mascolinizzarsi” per entrare in questo mondo. È proprio quello che stiamo cercando di fare noi nello specifico ambito del mio mestiere: arricchire il mondo chirurgico, che è ancora prevalentemente maschile, con la componente delle donne chirurghe, che portano la loro individualità e non devono diventare delle donne-uomo chirurghe, ecco».
D’altro canto «oggi le chirurghe iscritte alle scuole di formazione di chirurgia sono la metà degli uomini: la rivoluzione dei numeri è già qui», ragiona ancora Isabella Frigerio. Tra gli iscritti e le iscritte alla facoltà di medicina, il 75% è donna. «I numeri ci sono da dieci anni – e in questo il nostro paese rispecchia quello che succede anche altrove. Più donne lavoreranno in chirurgia, potendo assecondare le loro aspettative e inclinazioni, più il lavoro della chirurgia dovrà modellarsi per vestire in modo appropriato anche la figura femminile. E allora le donne potranno andare a casa in maternità, saranno necessarie le sostituzioni, il lavoro dovrà essere non più solo per “duri e puri” e resistenti fino all’ultimo, ma modellato su un sistema diverso».
Una lotta che passa anche attraverso il linguaggio di genere. «È un argomento incredibile. Noi stesse ci siamo arrivate recentemente, grazie a una psicologa che si occupa di linguaggio di genere che ha partecipato al congresso nazionale WIS l’anno scorso», conclude Isabella Frigerio. «Fino a quel momento percepivamo come cacofonico il termine “chirurga”: ora non potremmo chiamarci in maniera diversa. Guardate che ciò che non ha un nome non esiste nel linguaggio collettivo, ci ha avvisate. Abituate la gente a usarlo, usatelo. E il nostro grande dizionario della lingua italiana ci viene in aiuto: non chiediamo nulla che non sia già previsto».
Immagine di copertina: Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco per Open
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