Coronavirus, la realtà vista dall’interno di un reparto Covid a Varese. Alla faccia dei negazionisti
Negazionisti della Covid19, a seguito di un’iniziativa lanciata sui social, si stanno letteralmente esaltano nel pubblicare i loro video ripresi con i cellulari presso i Pronto Soccorso degli ospedali per sostenere che non ci sia alcuna emergenza. L’operazione viene svolta ignorando in maniera plateale come funzionano le strutture sanitarie e come queste si organizzano per far fronte all’afflusso continuo di nuovi pazienti Covid-19. L’esempio lampante è quello del video del Sacco che ha fatto infuriare gli infermieri e i medici in prima linea che in questi giorni stanno rivivendo, all’interno della struttura milanese, un incubo che doveva rimanere un lontano ricordo.
Il Dott. Pietro Olivieri, responsabile della Direzione Medica di Presidio Luigi Sacco di Milano, nell’intervista rilasciata a Open il 29 ottobre riporta le varie criticità riscontrate presso la sua struttura. L’aumento dei casi lo aveva costretto a fare richiesta al 118 di non far pervenire ulteriori pazienti presso il suo Pronto Soccorso dove c’erano casi in cui era necessario l’utilizzo del CPAP, il famoso casco per la respirazione assistita. Se da una parte c’è un aumento dei pazienti, dall’altra c’è una carenza nel personale che per ora viene ritenuta «gestibile», ma comunque scarsa. Una situazione, quella degli operatori sanitari, che viene ulteriormente peggiorata a causa di colleghi che sono risultati positivi al virus e dunque impossibilitati a lavorare in reparto.
Lasciato l’Ospedale Sacco di Milano, mi sono poi diretto a Varese per incontrare il Dott. Dentali dell’ASST dei Sette Laghi. Una volta istruito sulle misure di sicurezza da adottare, ho avuto accesso al nuovo reparto Covid – che si aggiunge agli altri presenti nella struttura sanitaria – aperto lunedì 26 ottobre e completamente riempito in appena due giorni. Una quarantina di pazienti divisi in stanze poste su due corridoi del quarto piano, alcuni ancora capacitati a parlare e altri che non possono nemmeno ascoltare la mia voce o quella degli operatori senza essere costretti ad urlare, questo a causa del casco della ventilazione assistita.
La preparazione per entrare in un reparto Covid è paragonabile a un rito, dove bisogna seguire determinate regole e procedure una dietro l’altra. Le scarpe erano completamente coperte, il mio corpo completamente protetto da una tuta che a vederla sembra leggera e facile da indossare, due paia di guanti e una visiera protettiva che andava a scontrarsi contro la mascherina FPP2. Non potevo toccare niente, tassativamente, potevo tenere solo il mio cellulare in mano per filmare all’interno del reparto.
Una volta varcata la soglia, dove il personale non poteva entrare o uscire liberamente, mi sono trovato di fronte alla prima stanza dove stavano dormendo due pazienti con indosso la maschera per l’ossigenazione. Tutti i pazienti erano sottoposti alla pratica, con tecniche diverse a seconda della gravità. Molti avevano addosso la CPAP, il casco che abbiamo imparato a conoscere durante la prima ondata, qualcuno era cosciente e comprendendo che non ero uno dei soliti infermieri accennava un sorriso con gli occhi e mi salutava.
Non è un classico reparto dove ci sono turni prefissati per le visite dei parenti, queste persone sono costrette a un isolamento dove un contatto umano, anche se a distanza come quello che abbiamo avuto, è un qualcosa di inaspettato ed evidentemente piacevole vista l’accoglienza che ho ricevuto da chi mi aveva notato. Un momento decisamente toccante e umano era quello del farci a vicenda il pollice in su: un segno di speranza e di sostegno che si ripeteva di stanza in stanza e da parte di chi riusciva a farlo.
La CPAP non è uno scherzo. Nel caso non basti, il livello successivo è l’intubazione. Il lavoro svolto dal macchinario impedisce di sentire ciò che viene detto all’esterno del casco e non è possibile per il paziente bere o mangiare quando ne hanno la necessità. Uno di loro, proprio mentre ero dentro la sua stanza, chiedeva all’infermiere di poter bere ma non era affatto possibile e doveva resistere fino alla conclusione del ciclo di ossigenazione. Non si scherza, le condizioni che devono affrontare per sopravvivere non sono affatto piacevoli sotto tutti i punti di vista e alcuni di loro non possono nemmeno alimentarsi autonomamente.
La media età è intorno ai 70-75 anni, tutti con evidenti problemi respiratori e circolatori, tanto che vengono sottoposti a terapie anticoagulanti oltre che all’ossigenazione. Sono genitori e nonni costretti a separarsi dai loro affetti a causa di un virus estremamente pericoloso per la loro salute. Gli operatori sanitari del reparto, che già soffrono per le tante ore di lavoro dentro quel vestiario ingombrante, non si occupano soltanto fisicamente dei pazienti: cercano di assisterli anche a livello psicologico per tenerli quantomeno in condizioni più «umane» e sociali, mettendoli in contatto con le famiglie attraverso delle videochiamate fatte con un cellulare in uso nel reparto per sopperire all’impossibilità di una visita fatta in carne ed ossa. Molti parlano della terapia intensiva, perché fa paura, ma stare all’interno di quei reparti senza un sostegno morale e senza alcun contatto con l’esterno è veramente deleterio per chiunque.
Una volta concluse le riprese non potevo uscire tranquillamente dal reparto. Insieme a Giò, uno degli infermieri che mi ha accompagnato e risposto alle mie domande, entriamo dentro una stanza dedicata solo alla svestizione. Anche in questo caso è un rito, dove dovevo stare attento a qualunque cosa toccavo, evitando il contatto con i miei vestiti o parti del mio corpo. Tanto, tanto disinfettante liquido con il quale lavavo le mie mani e non solo.
Usciti dalla stanza, subito a sinistra, c’era il varco dove dovevo togliere la protezione nelle scarpe e poggiare il piede al di là di una linea tracciata per terra. Non potevo, in alcun modo, poggiare la suola nell’area Covid per evitare in tutti i modi qualsiasi possibile contaminazione. Questo valeva anche per il mio cellulare, quello usato per le riprese, che era stato debitamente posto all’interno di un sacchetto di plastica sigillato per poi essere disinfettato. Nulla viene lasciato al caso, non si scherza affatto.
Non sono mancati, non solo dal Dott. Olivieri del Sacco, i messaggi rivolti ai negazionisti. Gli operatori sanitari dell’ospedale di Varese, così come tanti altri loro colleghi, conoscono le dicerie che vengono diffuse dai bufalari che diffondono falsità fantascientifiche sulla malattia e sul virus. Tra gli infermieri c’era chi operava con due o più mascherine una sopra l’altra durante la loro intera permanenza dentro il reparto, che può durare anche 5-6 ore consecutive andando avanti e indietro nelle stanze compiendo sforzi fisici nel prendersi cura dei pazienti, lavandoli e cambiandoli.
Chiamarli eroi non ha senso, anche se li vediamo come tali, bisogna tenere conto che sono dei professionisti che si spaccano la schiena in condizioni di contratto anche precarie con stipendi non soddisfacenti. Carenza di personale, fatiche, stipendi, e il dover pure affrontare moralmente e psicologicamente negazionisti e persone che non seguono le dovute precauzioni per impedire la diffusione del virus. Questi professionisti vanno tutelati e aiutati.
Scene come queste dovrebbero vederle tutti, non solo i negazionisti nella speranza che comprendano la reale situazione e smettano di seguire guru e malfattori che stanno approfittando dell’emergenza per racimolare seguaci e possibilità di profitto. Anche a causa loro ci sono ancora diversi malati, anche a causa loro ci sono molte persone che hanno perso un familiare o un amico. Certo, il virus è il principale colpevole, ma loro sono complici.
Riprese video: David Puente e Juanne Pili.
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