L’ipocrisia di Erdogan: paladino dei musulmani, ma alleato della Cina nella persecuzione degli uiguri
Nello scontro sempre meno a distanza tra Recep Tayyip Erdogan ed Emmanuel Macron, entrambi i presidenti hanno strumentalizzato vecchie divisioni interne per creare consenso attorno alla propria persona. Il leader turco, in particolare, consapevole di come funziona ormai la comunicazione politica, ha colto l’occasione per far leva su sentimenti islamofobi per presentare la Turchia come leader dei Paesi di fede islamica. «Musulmani trattati come ebrei», ha tuonato il leader dell’Akp, dopo che Macron, all’indomani della decapitazione dell’insegnante Samuel Paty, ha annunciato una stretta sulla vita dei fedeli musulmani in Francia e sui luoghi di culto, in un piano che ironicamente il capo dell’Eliseo ha chiamato dei cinque pilastri. E che è uno dei fattori nelle tensioni inter-religiose che montano nel Paese, scosso ieri a Nizza da un altro attentato di matrice terroristica.
Dallo Xinjiang alla Turchia
In pochi giorni il Sultano è riuscito a creare ampio consenso attorno al suo dissenso verso Parigi. Pakistan, Iran, Marocco, Giordania, sono tante le Nazioni a maggioranza musulmana che hanno condannato il giro di vite di Macron. Da anni il presidente turco coltiva l’ambizione di togliere all’Arabia Saudita la leadership di difensore del mondo musulmano. Un’ambizione tradita però dal voltafaccia di Erdogan alle sofferenze della minoranza uigura. La popolazione turcofona, originaria della Regione cinese dello Xinjinag, è da anni sottoposta alla dura repressione di Pechino. A partire dagli anni ‘50, sia per affinità linguistiche che culturali, e anche religiose, circa 50mila uiguri si sono rifugiati in Turchia per sfuggire alle torture della Cina. Ad Istanbul una grande maggioranza vive nei quartieri di Aksaray e Zeytinburnu.
«Gli incidenti in Cina contro gli uiguri sono un genocidio», diceva pubblicamente Erdogan nel 2009 quando ancora era primo ministro e la prospettiva di un ingresso in Europa non era lontana come oggi. Le avventure del presidente turco nel mediterraneo orientale e la sua presenza in Siria, Libia e Iraq hanno hanno esasperato le ambizioni egemoniche di Ankara, che deve fare i conti con un’economia in contrazione e una Lira che negli ultimi mesi ha conosciuto una forte svalutazione. E’ stato facile per la Cina comprarsi il silenzio della Turchia sugli uiguri che a partire dal 2017 sono stati, le stime dicono più di 1 milione, deportati in campi di internamento dove vengono sottoposti ad abusi e torture. Il 26 luglio, il quotidiano The Telegraph ha descritto in dettaglio come, oltre a evitare pubbliche condanne delle azioni cinese, Erdogan si sia piegato anche alle richieste di estradizione da parte del governo di Pechino degli uiguri che avevano trovato rifugio in Turchia.
Da Pechino a Istanbul
Mentre la Turchia continua a essere un membro della Nato, le sue difficoltà economiche, e il difficile rapporto con l’Europa, l’hanno spinta a guardare ad Est alla ricerca di un ancora di salvataggio. Dalla fine del 2019 la lira si è svalutata del 40% e purtroppo per Erdogan è arrivata anche la pandemia ed Ankara è diventata ancora più dipendente dall’aiuto di Pechino. Con un debito estero di 172 miliardi di dollari, e la mancanza di valute estere, Ankara è riuscita nel 2012 a chiudere un accordo swap con la Cina per lo scambio di lire-yuan e nel 2019 sono arrivati i primi fondi. Ma il legame di Erdogan a Pechino è radicato anche nel progetto delle Nuove vie della seta, la cosiddetta Belt and Road, dove uno degli snodi fondamentali, oltre a Istanbul, è proprio lo Xinjiang degli uiguri. I treni merci cinesi entrano in Europa grazie al tunnel ferroviario di Marmaray che passa dal Bosforo. Intanto la Cina, forte della dipendenza turca, ha acquistato il 65% del terzo terminal container più grande della Turchia, quello di Kumport.
La Belt and Road fa gola a tutti
Ma il presidente turco è in buona compagnia. Il silenzio sugli uiguri da parte del resto del mondo musulmano è assordante. E Pechino lo sa. Anche l’Arabia Saudita, che in competizione con Ankara aspira a mantenere il suo ruolo di protettrice dei fedeli musulmani, ha ben accolto l’accordo di cooperazione economica per 28 miliardi di dollari firmato a febbraio del 2019 con Pechino. Ma a Riad si aggiunge anche il Pakistan, in cui proprio il premier Khan aveva criticato aspramente Macron per le sue parole. Islamabad non può fare a meno della Cina che nel Paese ha riversato investimenti per 65 miliardi di dollari. Voltarsi dall’altra parte davanti alla detenzione e tortura di milioni di persone non fa certo onore a nessuno. L’ipocrisia di Ankara è ancora più evidente visto il suo legame storico culturale con la minoranza turcofona. Ma per Erdogan tutti sono sacrificabili.
Immagine copertina: EPA/SEDAT SUNA
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