Vaccino anti Covid, avanti piano: perché per somministrarlo a tutti gli italiani a rischio ci vorrà almeno un anno Linchiesta
«Il piano sul vaccino c’è», garantiva il 12 novembre il vice ministro della Salute, Pierpaolo Sileri. Nessun motivo di preoccuparsi, assicurava: «Si dice che non c’è, e invece non è vero». L’Italia, al pari degli altri Stati membri dell’Unione europea, è chiamata a predisporre entro la fine di novembre un piano di distribuzione e somministrazione del vaccino anti-Covid. Ma, nonostante le rassicurazioni arrivate anche il 14 novembre dal direttore della Prevenzione del Ministero della Salute Gianni Rezza, l’Italia quel piano non l’ha ancora ultimato. E, stando a quanto ricostruito da Open, la strada rischia di essere ancora piuttosto lunga.
«Può essere che Sileri si riferisse all’impianto generale», spiegano a Open fonti interne al Ministero della Salute. «Il piano completo, però, ancora non c’è». A quanto si apprende, i pilastri su cui poggerà sono due: da una parte la definizione dell’aspetto logistico, relativo alla distribuzione e alla conservazione dei circa 27 milioni di dosi che l’Italia riceverà tra la fine del 2020 e il 2021 nell’ambito dell’accordo tra la Commissione europea e il colosso farmaceutico statunitense Pfizer. Dall’altra, la selezione delle fasce della popolazione che beneficeranno della prima tranche del prodotto.
L’incarico della discordia: ad Arcuri la parte logistica
Di risolvere la prima questione è stato incaricato l’11 novembre il commissario straordinario all’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri. Una decisione presa dal premier Giuseppe Conte, d’intesa con il ministro della Salute Roberto Speranza. Arcuri dovrà assicurarsi che ogni step «sia efficiente e avvenga in piena sicurezza», spiegano dal governo. «Arcuri è una persona affidabile», aggiungono dal Ministero della Salute, «ha portato in poco tempo l’Italia ad avere una produzione autonoma di mascherine. Quando viene investito di una responsabilità, mantiene le aspettative».
Ma la scelta di Arcuri ha lasciato scontenta buona parte dell’opposizione, che ora mette sotto accusa la gestione dell’emergenza da parte del commissario. Ci sono stati ritardi nella distribuzione dei banchi monoposto – dicono – dei dispositivi di protezione, dei ventilatori per le terapie intensive. E ci sono stati problemi anche con la distribuzione dei vaccini anti-influenzali, fondamentali per non complicare ulteriormente le cose durante l’autunno: sono ancora 15 milioni le dosi mancanti.
L’accordo (europeo) di Speranza con Pfizer
Ma ancor prima del problema della gestione e della distribuzione, a farsi largo è l’incognita sui criteri di selezione delle categorie a rischio. A oggi non è ancora chiaro a chi spetterà la prima tranche in arrivo a gennaio, che riguarderà circa 1,7 milioni di cittadini. Si tratta precisamente di 3,5 milioni di dosi, dato che ogni persona dovrà ricevere una doppia somministrazione, a distanza di un mese l’una dall’altra. «Le 3,5 milioni di dosi rappresentano la quota prevista negli accordi che ha già preso Speranza con Pfizer», spiegano lato Arcuri.
Speranza – confermano – si era mosso già ai primi di novembre, parlando in via riservata con l’azienda farmaceutica e istituendo una task force ministeriale per lavorare sui criteri di distribuzione. L’accordo rientrava comunque nel quadro della strategia europea, e il contratto è stato stilato in accordo con il ministro tedesco della Salute, Jens Spahn. Considerato l’andamento dell’epidemia in Italia, i tempi d’azione sono a oggi più che mai stringenti.
I dubbi sulle categorie beneficiarie
Eppure, la fretta non sembra essere avvertita dai tecnici e dagli esperti al lavoro. Il team messo in piedi da Speranza, composto da quindici persone, s’è riunito per la prima volta il 4 novembre scorso. La task force è guidata da Rezza e formata da membri dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e dell’Istituto Spallanzani e dal direttore generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), Nicola Magrini. Secondo le indiscrezioni, a beneficiare per primi del vaccino Pfizer saranno gli anziani delle Rsa e gli operatori sanitari. Su questo, però, non si sbilancia ancora né il ministero della Salute, né l’Iss.
L’Aifa – interpellata da Open – ha definito la questione «competenza del Ministero della Salute». A sbottonarsi sulla questione era stato il commissario Arcuri, che il 12 novembre aveva detto: «Gli italiani verranno vaccinati in funzione della loro fragilità e della loro potenziale esposizione al virus. Le persone che lavorano negli ospedali saranno tra le prime a cui bisogna somministrare i vaccini così come le persone più anziane e che sono più fragili dovranno arrivare prima di quelle più giovani».
Dagli over 60 agli operatori sanitari: la coperta è corta
In tutto, si parlerebbe in Italia di oltre 18 milioni di persone appartenenti alle categorie ad alto rischio. Gli over 60 – una delle sei fasce di popolazione indicate nelle linee guida della Commissione Ue relative agli individui da vaccinare in via prioritaria – nel nostro Paese sono circa 17 milioni. I medici e gli infermieri, anch’essi menzionati da Arcuri e, al pari degli over 60 inclusi, nella lista dell’esecutivo europeo, sono invece poco più di 1 milione: durante il primo lockdown, ad essere occupati nell’assistenza sanitaria furono 1 milione e 320 mila professionisti.
Con 27 milioni di dosi a disposizione in totale (il 13,51% di quelle previste dall’accordo tra Bruxelles e Pfizer), l’Italia sarà capace di somministrare il vaccino in questione a poco meno di 14 milioni di persone. In attesa di altri vaccini (la Commissione Ue ha firmato contratti anche con AstraZeneca, Sanofi-GSK e Janssen Pharmaceutica NV) e delle successive tranche del farmaco sviluppato da Pfizer e BioNTech, a gennaio potrebbero essere vaccinati non tutti gli over 60, ma soltanto gli ospiti delle Rsa – che in primavera si sono rivelate bacini micidiali di trasmissione del virus.
Secondo un rapporto dell’Istituto superiore di sanità aggiornato a maggio 2020, in Italia sono attive 3.417 residenze per anziani pubbliche/convenzionate, con una media di 74,8 posti letto per ciascuna struttura. Sulla base di questi dati, è possibile stimare il numero complessivo di residenti delle Rsa del Paese attorno alle 250 mila unità. Sommando questa cifra all’1,32 milioni di medici e infermieri, si sfiora l’1,7 milioni di destinatari della prima tranche del vaccino Pfizer.
Chi resta fuori (e chi lo decide)
Se questa dovesse confermarsi la scelta della task force guidata da Rezza, resterebbero esclusi 4 gruppi sociali indicati dalla Commissione europea come a rischio. In primis, «la popolazione vulnerabile a causa di malattie croniche, comorbità e altre patologie sottostanti». Secondo quanto riportato nel 2019 dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, le malattie croniche hanno interessato nell’anno preso in esame 24 milioni di persone, delle quali 12,5 milioni avevano multi-cronicità.
In secondo luogo, rimarrebbero fuori i «lavoratori essenziali», che, escludendo medici e infermieri, durante il lockdown di marzo furono circa 6,5 milioni. La terza categoria a rimanere fuori dalla prima distribuzione sarebbero le «persone che non possono osservare il distanziamento», quindi ospiti di dormitori, carceri e campi profughi, ma anche lavoratori occupati in determinati contesti, come le fabbriche. Infine, i «gruppi più svantaggiati da un punto di vista socio-economico».
Il pool messo in campo dal ministero, nelle figure di Rezza e degli esperti che a lui fanno capo, deve dunque operare delle scelte. E i numeri suggeriscono che è chiamato a farlo sulla base di criteri ben più stringenti della «fragilità» e della «potenziale esposizione al virus» menzionate dal commissario Arcuri. Rezza ha spiegato che il gruppo di lavoro ha preparato una bozza di piano che si sta perfezionando anche con una riflessione con le Regioni. La versione definitiva però ancora non c’è, segno che alcuni nodi da sciogliere restano.
Per vaccinare tutti servirà «almeno un anno»
Allo stesso modo, rimane l’incognita – tutt’altro che secondaria – su quando potranno essere vaccinate tutte le persone che non saranno incluse tra i primi 1,7 milioni di beneficiari. Tanto il Ministero della Salute quanto la Commissione europea, al momento, non sono in grado di dare informazioni certe. Secondo Guido Rasi, direttore dell’Agenzia europea del farmaco (Ema), per vaccinare tutti «ci vorrà almeno un anno», al netto di possibili contrattempi.
È molto cauto anche Giovanni Maga, infettivologo e direttore dell’Istituto di genetica molecolare del Cnr: «Vaccinare tutti, forse, non sarà possibile neanche entro l’anno», dice a Open. «Sicuramente per avere una protezione significativa dal punto numerico non solo delle fasce fragili ma anche del personale professionalmente esposto, altrettanto importante da proteggere, è molto difficile che accada prima della prossima stagione. E “prossima stagione” vuol dire prossimo autunno-inverno».
Può darsi che nel frattempo arriverà un altro vaccino, spiega, «lo speriamo, ma ci sono tanti interrogativi rimasti aperti: l’anziano avrà la stessa risposta al vaccino del giovane? La persona vaccinata non si infetta o si infetta e trasmette il virus senza ammalarsi, cioè senza avere i sintomi? Sono tutte domande a cui non abbiamo ancora risposta». Su questo e altri punti dovrà fare chiarezza il ministro Speranza, che presenterà il piano nei prossimi giorni, spiegano dal Ministero della Salute: «La deadline di fine novembre è vicina», ammettono, «ma il tempo c’è. Siamo sicuri che riusciremo a rispettarla».
Il dilatarsi dei tempi sulla parte del piano che fa capo al Ministero della Salute va di pari passo con il ritardo che Arcuri rischia di accumulare nell’organizzazione del piano di distribuzione. Dall’entourage del commissario fanno sapere che è «ancora presto» per definire i dettagli. «È tutto ancora in via di definizione», dicono, perché mancano le indicazioni della task force. In ogni caso, garantiscono, «non c’è nessun problema relativo alla logistica, a tempo debito saremo pronti».
Il nodo della distribuzione a -75 gradi
Al netto delle frasi di circostanza, la sfida che attende Arcuri è complessa. Il farmaco sviluppato da Pfizer e BioNTech deve essere conservato a -75 gradi Celsius. Una temperatura che, come fa sapere il presidente di Assoram Pierluigi Pietrone, «nessuna catena di logistica e distribuzione è al momento in grado di gestire né in Italia, né nel resto del mondo senza un piano preordinato e predefinito». A quanto si apprende, gli operatori privati e i gestori delle infrastrutture, a partire dagli aeroporti, al momento non sono ancora stati consultati dal governo, mentre si sta allargando il tavolo a una serie di ministeri – quello dei Trasporti e, soprattutto, quello della Difesa.
L’ipotesi più accreditata, infatti, è che per la distribuzione del vaccino, come avvenuto per quella dei dispositivi sanitari a marzo, venga utilizzato il personale dell’esercito. Dovrebbe essere prevista una logistica ad hoc da parte della Difesa e non si esclude, così come già avviene a Milano per il vaccino influenzale, che i militari possano essere impiegati anche nella somministrazione delle dosi. «Si tratta di una sfida enorme», dice a Open Giovanni Perna, responsabile della Logistica di Medici Senza Frontiere. Perna si è occupato di piani vaccinali in diversi Paesi del Terzo mondo e, durante la prima ondata di Coronavirus in Italia, ha lavorato sul campo nel Lodigiano, epicentro della pandemia a marzo e aprile.
Due ipotesi per lo stoccaggio
«Il vaccino in questione deve essere conservato a -75 gradi, da quando sbarca negli aeroporti italiani a quando viene somministrato, altrimenti perde di efficacia», dice Perna. «C’è un margine di tolleranza, ma è piuttosto ridotto e non può protrarsi troppo nel tempo». Secondo le prime informazioni, il farmaco sviluppato da Pfizer e BioNTech può sostenere temperature più elevate, ma soltanto per 4 o 5 giorni. Per il tempo restante, la temperatura dev’essere quella indicata dai produttori.
Le modalità di conservazione «percorribili» secondo Perna sono due: lo stoccaggio delle fiale in contenitori criogenici pieni di ghiaccio secco – soluzione economica ma tutta da verificare su così ampia scala – o il ricorso a ultracongelatori, macchinari prodotti a costi elevati e in quantità ridotte, in dotazione a ospedali e laboratori ma non in numero sufficiente per la mole di dosi che dovranno essere conservate.
Gli aeroporti non hanno i magazzini adatti
«In Italia», spiega Ivano Russo, direttore generale di Confetra, la Confederazione dei trasporti e della logistica, «neanche gli unici aeroporti certificati per la ricezione di farmaci, Fiumicino a Roma e Malpensa a Varese, dispongono di magazzini che arrivano a -75 gradi. Se non qualcuno che viene utilizzato per il biotech. Ma non basta». E, rimarca Russo, «il governo non può pensare che, siccome arriva il vaccino, i nostri operatori smettano di trasportare tutti gli altri farmaci».
Secondo Russo, «serve una quantità di mezzi e di magazzini tale per cui non si può pensare di improvvisare. La verità è che le infrastrutture italiane, al momento, non sono pronte ad accogliere e a movimentare in pochi mesi quasi un centinaio di milioni di dosi di vaccino. Non sono questioni insormontabili, ma serve un confronto tra tutti i soggetti che saranno coinvolti in questa sfida». Questo confronto, finora, non s’è tenuto, nonostante l’appello di Confetra: «Il 16 ottobre abbiamo inviato una lettera ad Arcuri e ai ministri Speranza e De Micheli, chiedendo di aprire un tavolo con le articolazioni amministrative dello Stato, gli operatori della farmaceutica e quelli della logistica e dei trasporti». Invano.
I timori degli operatori della logistica
Secondo una stima dell’Istat, saranno 40 milioni gli italiani che richiederanno il vaccino anti-Covid. Considerando sempre che ogni persona deve ricevere due somministrazioni, il fabbisogno nazionale a circa 80 milioni di dosi. «Siamo preoccupati», dice Russo, «l’anno scorso l’Italia ha movimentato 9 milioni di dosi di vaccino antinfluenzale, quest’anno 17 milioni di dosi e abbiamo visto che ci sono state difficoltà. Non oso immaginare cosa succederà nel 2021, con decine di milioni di vaccini anti-Covid da trasportare».
Un altro aspetto da considerare, aggiunge Perna, è che per muovere questo tipo di vaccini serve personale qualificato: «Maneggiare materiale a temperature così basse è pericoloso, per l’operatore che rischia di ustionarsi, e per il farmaco stesso, che con il minimo errore diventa inutilizzabile». «Non so se il governo riterrà di gestire la parte logistica affidandosi solo all’esercito», dice Russo. «Ma se così dovesse essere sarei sorpreso di scoprire che il personale della Difesa ha tutte le competenze necessarie a gestire il processo, dall’inizio alla fine».
Il faro della Commissione Ue
Le incognite sono molteplici, e il rischio che il pur minimo contrattempo comprometta la distribuzione del vaccino è concreto. Per questo l’attenzione della Commissione europea sul dossier è massima. Dall’esecutivo Ue confermano a Open che Bruxelles sta monitorando molto da vicino l’operato degli Stati membri. La sfida, dicono, è complicata: «Servono infrastrutture adeguate, la logistica può rivelarsi problematica». Per questo, l’esecutivo europeo si è mosso già il 15 ottobre scorso, chiedendo agli Stati membri di mettere in campo tutte le misure necessarie a garantire la distribuzione e la conservazione in sicurezza del vaccino.
Alcuni Stati membri hanno risposto all’appello. Tra questi c’è la Germania, che ha già avviato i lavori per l’ampliamento dei magazzini all’aeroporto di Francoforte e predisposto il proprio piano nazionale. Da loro le dosi verranno conservate in un deposito centrale prima di essere inviate agli oltre 60 centri regionali, individuati dai Länder al pari di uno o due punti di stoccaggio intermedi in ogni regione. Altri Paesi, invece, non hanno ancora fatto i compiti a casa, nonostante l’ulteriore sollecitazione della commissaria Kyriakides mediante una lettera inviata ai ministri della Salute lo scorso mercoledì: «A fine mese vedremo cos’ha fatto ogni Paese», garantiscono dalla Commissione, «e sulla base di questo prepareremo un report».
Le raccomandazioni di Bruxelles (recapitate un mese fa)
Secondo le raccomandazioni della Commissione, recapitate ormai un mese fa, ogni Stato membro deve essere in grado di garantire:
- una «chiara comunicazione sui vantaggi, i rischi e l’importanza dei vaccini Covid-19 per costruire la fiducia del pubblico»;
- l’«accesso ai vaccini per le popolazioni» individuate come target;
- la «capacità dei servizi di vaccinazione di somministrare i vaccini Covid-19, compresa la manodopera qualificata e le attrezzature mediche e di protezione»;
- «la distribuzione di vaccini con diverse caratteristiche ed esigenze di stoccaggio e trasporto, in particolare in termini di catena del freddo, di capacità di trasporto e di stoccaggio a freddo».
«Negli altri Paesi europei le aziende della logistica sono già state contattate dai rispettivi governi per rispondere adeguatamente a queste necessità», lamenta Russo, «in Italia ancora no». E, secondo il direttore generale di Confetra, «il problema non è tanto Arcuri o chi per lui. Il punto è che la logistica in Italia non è mai stata reputata strategica. E il risultato è che adesso rischiamo di pagarne il prezzo, facendoci male sul serio».
Immagine di copertina: elaborazione grafica di Vincenzo Monaco
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