Coronavirus l’affondo del presidente dei Lincei: «Dal 20 ottobre non abbiamo dati affidabili, i positivi vanno intervistati»
Operativamente si parte questa settimana: l’Istituto Superiore di Sanità e l’Accademia dei Lincei collaboreranno per lo sviluppo di modelli che analizzino l’andamento dell’epidemia di Coronavirus in Italia e l’impatto sul sistema sanitario nazionale. L’accordo durerà un anno. Una novità che arriva a nove mesi dall’inizio dell’emergenza epidemiologica, e quando ormai è chiaro che ancora, nel pieno della seconda ondata, i dati a disposizione dell’opinione pubblica – ma anche di esperti indipendenti – non sono abbastanza trasparenti e completi. «Sono profondamente convinto che i dati debbano essere pubblici», spiega a Open Giorgio Parisi, fisico e presidente dell’Accademia dei Lincei. «Questo accordo può essere un aiuto, uno stimolo all’Iss per rendere questi dati pubblici, per cominciare a vedere bene gli elementi a disposizione da vicino: quali ci sono, quali non ci sono, come si possono rendere uniformi».
Professore, quali sono i dati sull’epidemia e sull’emergenza sanitaria disponibili in altri paesi e in Italia no?
«Le faccio un esempio. Ogni giorno sappiamo che ci sono +X persone a occupare posti letto in terapia intensiva. Ma per capire come sta andando l’epidemia sarebbe interessante sapere quante persone nuove sono entrate e quante uscite dalla rianimazione. Quante sono le entrate e le uscite separatamente, non sappiamo che percorso hanno fatto: conosciamo solo il saldo di giornata. Quello che succede, che si vede dappertutto, e che le persone stanno in terapia intensiva per periodi lunghi, una o due settimane.
Quando l’epidemia comincia a rallentare, tra i valori che per primi cominciano a diminuire c’è il numero delle nuove terapie intensive. Ma dato che i pazienti già presenti in rianimazione non hanno ancora cominciato a essere dimessi, il numero totale dei posti letto di terapia intensiva occupati (che è il dato pubblicato nel bollettino di ministero della Salute e Protezione Civile, ndr) continua ad aumentare anche all’inizio della fase di rallentamento.
Lo stesso vale per gli ospedalizzati: sapere quanti sono entrati e usciti è importante. Nel caso dei positivi lo sappiamo: ci viene detto sia quanti sono i nuovi positivi, sia quante persone sono guarite, sia il saldo tra nuovi positivi e guariti».
Perché accade questo?
«Per saperlo dovremmo sapere come sono fatti i protocolli di intesa delle singole regioni. Se per esempio gli ospedali sono obbligati a comunicare alle regioni solo il numero totale e non le entrate e le uscite, a questo punto quei dati non sono noti nemmeno alle regioni».
Da dove può ripartire quindi questo accordo tra Lincei e Iss?
«Una delle prime cose che mi piacerebbe conoscere con questo accordo è sapere cosa sa l’Iss: quali dati sono accessibili, quali dati mandano le regioni, quali gli ospedali».
E qual è un’altra priorità del lavoro nella gestione dei dati della pandemia?
«Estremamente importante sarebbe avere un questionario in cui la persona che risulta positiva dà informazioni fondamentali: che lavoro fa? Prende la macchina? Quante volte usa i mezzi pubblici? E per quanto tempo? Ci sono dei lavori che certamente sono esposti. Se per esempio chi fa il cassiere o la cassiera in un supermercato si ammala molto più di altre persone, questo vuol dire che nei supermercati circola il virus.
Se gli autisti e le autiste degli autobus si ammalano più di altre categorie, vuol dire che sugli autobus circola il virus. Avere informazioni di tipo occupazionale, sociale (le uscite a cena con gli amici, per esempio), sul tipo di contatti che ha avuto una persona che è risultata positiva è fondamentale.
In alcuni ambienti, quando sono aperti al pubblico, come cinema o teatri – quindi non ora – è impossibile fare contact tracing: chiedere anche questo tipo di abitudini a una persona risultata positiva è molto utile. In strutture piccole e controllate (come la scuola e la famiglia), se una persona si ammala è possibile sapere come e quando sono avvenuti i contagi perché è possibile fare il tracciamento.
Ma oggi in Italia – ma è lo stesso anche in Germania, per esempio – è possibile sapere dove è avvenuto il contagio solo nel 23% dei casi. Il 77% è ignoto. E questo dipende dal fatto che la maggior parte dei contagi non avviene in luoghi piccoli chiusi ma nella comunità, in occasioni dove si incontrano sconosciuti a distanza di meno di due metri, e quindi sfugge al tracciamento».
Per tutto questo, in teoria, ci doveva essere Immuni…
«Ecco, Immuni avrebbe potuto dare informazioni di questo genere e deve essere in qualche modo rivitalizzata. L’app è stata progettata per funzionare in una situazione in cui c’erano pochi casi in Italia, come accaduto quest’estate: ogni persona avrebbe prodotto una lista di 100/200 possibili contatti da controllare. Se anche Immuni funzionasse al 100%, ora con 30-40 mila persone positive nelle 24 ore, avremmo ogni giorno una lista di 8 milioni di possibili contatti da esaminare: è impensabile.
Immuni era stata progettata per la gestione della fase 2, una fase calante in cui si vuole tendere all’estirpazione del virus, alla riduzione ai minimi termini lavorando sui contatti casuali che nessuno si immaginerebbe. È chiaro che ci sono stati vari problemi. Non ora, ma andava fatta una corsia di emergenza per fare i tamponi il prima possibile a chi ha avuto un segnale da Immuni.
L’app poi deve dare la possibilità, privacy permettendo, di conoscere l’ora precisa del contatto: così si riuscirebbe a scoprire eventuali contagi insospettabili e anonimi, o informazioni specifiche su contatti noti. E ancora: si dia una compensazione anche minima a chi si reca a farsi le analisi in seguito a una segnalazione di Immuni. Sarebbero spiccioli dal punto di vista dello Stato rispetto al risparmio sul sistema e un incentivo per il cittadino, magari autonomo».
Quando è saltato tutto?
«Fino a un certo punto, e lo si vede chiaramente, le strutture periferiche sono riuscite a lavorare e a far emergere il dato delle persone contagiate, di quante tra loro sono sintomatiche e di quando lo sono diventate. Dal 20 ottobre scorso il numero delle persone positive continua ad aumentare, mentre quello delle persone che risultano sintomatiche nelle date successive rimane costante.
Ma la malattia non ha cambiato natura: è che evidentemente l’informazione non arriva più almeno da alcune regioni. I medici, oberati, cominciano a “mandare al diavolo” i questionari statistici: non ce la fanno più, è un segno della sofferenza del sistema. E quindi arrivano dati che non hanno senso: si è perso il contatto con quello che succede. D’altro canto gli esperti che analizzano l’indice RT lo sanno benissimo».
Ecco: l’indice RT. Lei lo definisce senza mezzi termini “inaffidabile”.
«Ha presente le forchette elettorali? Ora sono chiarissime: quando un giornalista dice “una forchetta tra il 48 e il 50“, tutti capiscono cosa vuol dire, ovvero che il dato sarà tra quelle due cifre. Quando si calcola l’Rt bisogna fare delle inferenze statistiche sui dati, che possono avere una serie di approssimazioni. Ma la ‘forchetta’ è scritta in un linguaggio incomprensibile ai profani.Negli ultimi monitoraggi viene indicato con “1.73 (95% CI:1,41–1.83)”.
Non viene nemmeno la curiosità di sapere di cosa stiamo parlando: è qualcosa di incomprensibile. La traduzione è che la forchetta è compresa tra 1,4 e 1.8, e il valore più probabile (si tratta di previsioni asimmetriche) è 1,73. La settimana successiva il valore più probabile dell’Rt risulta 1.43 ma la forchetta si è dilatata enormemente, da 1,1 a 1,8. Gli esperti che fanno i report si accorgono dell’instabilità dei dati e del fatto che il sistema non ha più controllo. Un profano no.
Penso che le persone nella cabina di regia si rendano conto che l’Rt è inaffidabile, guardando il valore di CI, il Confidence Interval. Da un lato gli esperti lo sanno, dall’altro è un elemento che si è un po’ perso nella comunicazione».
Quale altro dato sarebbe prioritario rendere trasparente e omogeneo?
«Una delle informazioni fresche più interessanti è il numero di chiamate che vengono fatte al 118. Un numero che per esempio si riesce a sapere per la regione Lombardia: io lo trovo sul Sole 24 Ore, la fonte citata è l’Areu, anche se è un dato non semplice da trovare sul sito dell’Azienda Regionale emergenza urgenza (io non ci sono riuscito). Per altre regioni il dato non si trova.
Nel Lazio invece, per fare un altro esempio, dallo Spallanzani mi raccontano che hanno l’impressione che gli arrivi ai pronto soccorso stiano diminuendo. Ma un conto è l’impressione di persone magari in prima linea, certo fondamentale: un conto è il dato quantitativo. Quante persone sono arrivate ai pronto soccorso? Quante per malattie respiratorie? Il dato di Milano, noto, è certamente positivo: le chiamate al PS stanno diminuendo, due settimane fa erano 500 al giorno mentre da tre giorni sono scese sotto soglia 400.
Qualcosa si vede, ma sono segnali fragili: potrebbe essere una fluttuazione. Se questo trend si consolida e vale solo per Milano è un conto, se invece la discesa delle chiamate al PS è rintracciabile anche – per esempio – in Veneto, Piemonte, Lazio, Campania, è clamoroso. Al momento non possiamo saperlo: sono dati difficili da reperire, e quando anche si riesca, sono difficilmente analizzabili».
E sull’arrivo del vaccino Covid, cosa prevede o cosa suggerisce in termini di dati?
«Sono abbastanza tranquillo perché penso che ci siano delle procedure a livello europeo chiaramente delineate. Per la distribuzione bisogna fare i piani, ma è chiaro che la prima tranche andrà fatta al personale sanitario, a chi è in prima linea, per loro e perché sono a rischio di diffonderlo. Poi toccherà agli ultra-ottantenni e a chi ha patologie. Ecco: bisogna cominciare a fare il censimento delle persone con patologie, magari il prima possibile con un questionario mandato ai medici di famiglia dove possano comunicare la situazione dei loro pazienti. Ma sono abbastanza fiducioso: è un qualcosa che funzionerà».
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