Il conflitto in Etiopia rischia di espandersi ai Paesi vicini: «Non sarà una guerra rapida» – L’intervista
Dopo l’attacco, lo scorso 4 novembre, a una base militare federale, il governo di Addis Abeba ha dichiarato guerra alle forze che fanno capo al partito separatista Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf). Da settimane il governo centrale sta conducendo operazioni nella regione dei Tigré, una delle dieci regioni divise su basi etno-religiose che compongono l’Etiopia. Il 16 novembre il premier Ahmed Abiy ha annunciato che l’offensiva militare nella regione del nord, che ha già provocato centinaia di morti e la fuga di circa 25.000 civili riparati nel vicino Sudan, entrerà nei prossimi giorni nella sua «fase finale».
Abiy Ahmed, insignito nel 2019 del premio Nobel per la Pace per l’accordo di cessazione delle ostilità con l’Eritrea, ha portato avanti a partire dal 2018, da quando è salito al potere, una serie di riforme e un processo di liberalizzazione per condurre il Paese verso un superamento delle divisioni settarie. Per farlo, nel 2019 ha ha sostituito la coalizione a quattro partiti divisa su base etnica con un unico grande “Partito della prosperità” di orientamento nazionale. I tigrini, al potere dal 1991 fino al 2018, hanno ritirato il loro partito di Liberazione dal governo.
Da allora hanno continuato a ostacolare e combattere il processo di riforma di Abiy. A settembre, il Tpfl, dopo che il presidente aveva deciso in estate di posticipare le elezioni a causa della pandemia, ha tenuto comunque un voto regionale. Abiy li ha così accusati di voler destabilizzare il Paese. Allo scambio di provocazioni è seguito poi l’attacco a una base federale: la miccia che ha innescato la risposta militare di Abiy. Per il governo federale c’è in ballo «l’intero assetto costituzionale dell’Etiopia, che il premier sta cercando di far allontanare dalla storica base etnica», spiega a Open Francesco Strazzari, professore di Relazioni Internazionali alla scuola Sant’Anna di Pisa.
La questione tigrina
«Ci sono molte incognite in questo conflitto – dice Strazzari – perché l’elite tigrina è riuscita per 30 anni a consolidare un ruolo da protagonista nella politica nazionale e gran parte degli ufficiali federali su cui si appoggia Abiy sono di origine tigrina». A partire dall’accordo di pace con l’Eritrea, e anche negli anni precedenti, nel Paese da 110 milioni di abitanti, una lunga storia di risentimenti tra etnie diverse ha messo i semi per lo scontro che vediamo oggi soprattutto perché «la minoranza tigrina ha guidato per anni gli assetti del potere e quando si è vista mettere alla porta dal processo di liberalizzazione ha ingaggiato uno scontro sempre più aperto fino ad arrivare all’attacco del 4 novembre», aggiunge Strazzari.
La questione tigrina si lega dunque agli altri fronti interni che Abiy sta cercando di bilanciare. Due settimane fa l’Oromo Liberation Army, un gruppo armato formato da membri di etnia Oromo, la stessa del presidente Abiy, ha ucciso circa 60 persone dell’etnia degli Amara. E a dispetto di quello che sta succedendo il presidente non è altro che «il prodotto del partito al potere che, nel tentativo di riformare il sistema, deve fare i conti con tutti questi scenari aperti. Ogni fronte etiope – aggiunge Strazzari – ha un fronte di liberazione armato. L’unico che manca è forse quello di matrice jihadista. E tutti questi scenari si annodano alla questione tigrina».
Sudan, Egitto e la diga sul Nilo Azzurro
E proprio la presenza di questi focolai fa intendere che l’escalation con la regione del nord fosse alle porte da tempo. Il governo ha fatto sì che i separatisti del nord lanciassero l’attacco in risposta alla sostituzione dei militari tigrini in un momento in cui «il presidente sapeva che poteva circondarli sul territorio e tagliare la loro storica linea di approvvigionamento con il Sudan».
In un conflitto nazionale che sta assumendo sempre più un carattere regionale, le questioni aperte proprio tra Khartoum e Addis Abeba possono avere un peso importante sul futuro della guerra. In particolare, è la grande diga sul Nilo Azzurro, la cosiddetta Grand Ethiopian Renaissance Dam, a creare tensione tra il Sudan, l’Etiopia e anche l’Egitto. Da anni i tre Stati non riescono a trovare un accordo sul riempimento del progetto idroelettrico.
Le forze tigrine stanno così provando a internazionalizzare il conflitto. I massacri di civili nella Regione del nord hanno spinto migliaia di rifugiati in Sudan che però, in questo momento, «non ha alcun interesse nello schiararsi con un gruppo che è stato sempre un suo alleato», chiarisce Strazzari. Nelle scorse settimane il governo di Khartoum ha deciso di normalizzare i rapporti con Israele «ed essendo imbrigliato adesso in questo gioco internazionale è difficile possa appoggiare le forze separatiste», chiarisce Strazzari.
E anche l’Egitto non sembra pronto a muoversi, vista anche la posizione dell’alleato emiratino che nel corno d’Africa è molto vicino all’Etiopia. Quest’ultima, «nel gioco degli allineamenti internazionali non ha inoltre mai fatto una scelta chiara investendo su più fronti». E mentre il premier dichiara che la fine delle operazioni è vicina, e l’Onu ha chiesto già di avviare un’indagine su crimini di guerra, lo scenario «più probabile è che il conflitto si protragga e che venga combattuto a bassa intensità con il coinvolgimento di milizie e organizzazioni paramilitari: l’esito non sarà necessariamente rapido».
Una catastrofe umanitaria
A intrecciarsi alle dinamiche di uno scontro che potrebbe sfociare in una guerra civile c’è anche la questione dei rifugiati. «In Sudan ci sono già centinaia di campi profughi e l’incidenza di quelli arrivati finora dall’Etiopia è abbastanza bassa», dice Strazzari aggiungendo però che quello che può succedere è che si crei invece un’ondata di nuovi profughi dall’Eritrea dopo che i tigrini hanno attaccato la capitale Asmara.
«Uno dei primi motivi di migrazione dal Paese è quello relativo al servizio militare: se l’Eritrea dovesse decidere per un maggiore coinvolgimento nel conflitto allora chiamerà a combattere i suoi giovani che cercheranno di evitare la leva scappando in Sudan». In una terra legata anche agli sconvolgimenti provocati dal cambiamento climatico, e il conseguente accesso alle risorse da cui dipende la sopravvivenza dei cittadini, un conflitto simile getta benzina sul fuoco: «Ecco quindi che la miccia accesa potrebbe innescare diverse catastrofi umanitarie».
Leggi anche:
- Elezioni in Uganda, vince Museveni tra blackout e accuse di brogli. Per lui sarà il sesto mandato
- Padre Maccalli liberato in Mali. Era stato rapito nel settembre del 2018
- Golpe in Mali: il presidente si dimette e scioglie il governo. I militari: «Ora transizione verso elezioni»
- Nigeria, condannato a morte un cantante di 22 anni per blasfemia: «Ha offeso Maometto»
- Chi è Félicien Kabuga e cosa è successo in Ruanda nel 1994
- L’invasione di locuste in Africa. Colpa del cambiamento climatico?