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Ospedali sotto pressione e contact tracing allo sbando: il caso Piemonte. L’Ordine dei medici: «Non è il momento di riaprire»

19 Novembre 2020 - 06:58 Giada Ferraglioni
Il presidente di Regione, Alberto Cirio, invoca misure meno restrittive. Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei Medici di Torino, a Open: «Non mi sento di sottoscrivere»

È la seconda regione per numero di attualmente positivi ed è tra le prime tre per l’aumento giornaliero di casi nella seconda ondata. Il Piemonte è una delle zone decretate ad altissimo rischio di contagio da Coronavirus – una delle cosiddette zone rosse d’Italia. Ora, dopo quasi due settimane di chiusure, secondo il presidente Alberto Cirio le cose si sarebbero sistemate a tal punto da chiedere una rivalutazione dei dati e un conseguente passaggio all’arancione. Ma ci sono davvero le condizioni per allentare già le misure?

Per Cirio non ci sono dubbi. «Da venerdì scorso – ha detto – il Piemonte è potenzialmente in zona arancione. Se al 30 di novembre avremo mantenuto questi dati potremo uscire dalla zona rossa». D’altronde lui stesso, insieme ai presidenti della Lombardia, della Liguria e della Calabria aveva lamentato a inizio mese di aver subito discriminazioni e limitazioni ingiuste. Come per Attilio Fontana e Giovanni Toti, anche per Cirio la preoccupazione primaria era stata (e resta) l’economia e le imprese. Ieri, 17 novembre, a margine della Conferenza con le Regioni, ha insistito affinché lo Stato si occupi di più delle aziende locali.

Ma l’andamento dell’economia locale non è tra i 21 criteri stilati dalla cabina di regia del governo lo scorso inizio novembre, pensati per incasellare le varie Regioni nelle fasce di rischio. E non è sfuggito agli addetti ai lavori che la situazione epidemiologica di circa un mese fa destava non poche preoccupazioni – a partire dall’indice Rt al 2,16 al 25 ottobre e al 1,72 all’8 novembre. E se nei primi mesi d’emergenza il Piemonte ha vissuto “all’ombra” dell’osservatissima Lombardia, che ha catalizzato su di sé i fari dell’attenzione mediatica e politica, con l’arrivo della nuova ondata la Regione di Cirio ha messo a nudo le sue fragilità: dal tracciamento dei contatti saltato fino alla tenuta del sistema ospedaliero.

Il problema dei dati sui positivi: non si fanno tamponi agli asintomatici

Che i dati abbiano visto un generale miglioramento è vero. Ma la situazione attuale non è ancora matura per permettere visioni ottimistiche a lungo respiro. E, soprattutto, il quadro dei positivi e l’andamento dei tamponi non svelano, a livello meramente numerico, le difficoltà e le mancanze che ci sono sotto. «Se devo essere onesto, non mi sentirei di sottoscrivere un passaggio alla zona arancione», ha detto a Open il dottore Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei Medici di Torino.

Secondo il presidente, l’aspetto più preoccupante è che in Piemonte si è abbandonato il contact tracing. «Abbiamo rinunciato a fare i tamponi ai contatti dei positivi», ha spiegato. «Non siamo più capaci di tracciare nemmeno i familiari, perché non abbiamo le persone per fare l’indagine epidemiologica. Di base, abbiamo rinunciato a capire come sta andando l’epidemia, perché il caso positivo non viene più intervistato. Si è detto: facciamo stare tutti a casa 14 giorni senza necessità di fare poi i tamponi. Il che può andare anche bene, ma significa che non vogliamo più seguire la strada del virus». Il numero dei nuovi positivi, dunque, è largamente sottostimato. Pur essendo tra i più alti d’Italia.

La medicina territoriale e il monitoraggio di chi è in isolamento

La medicina territoriale, che dovrebbe avere un ruolo fondamentale in una regione dove il 60% dei nuclei familiari è composto da una sola persona – e dove si è rinunciato a testare i contatti diretti asintomatici – ha i suoi problemi di tenuta. A Torino (una delle città che da questo punto di vista funziona meglio) l’ordine dei medici ha stilato un protocollo per le cure domiciliari. Per molti medici di famiglia, però, si tratta di un «libro delle favole». «Noi possiamo anche prevedere l’ossigenoterapia a domicilio o l’uso di cortisone o di farmaci più specifici», ha detto Giustetto. «Ma poi ce li abbiamo gli infermieri di mandare? Ce li abbiamo gli strumenti per fare arrivare le attrezzature in velocità? La risposta è no».

La situazione negli ospedali

Per quanto riguarda la situazione ospedaliera, a fine ottobre in Piemonte era talmente critica che le strutture avevano dichiarato il Piano di emergenza interna per il massiccio afflusso di feriti (Peimaf). A fare notizia era stato il caso dell’ospedale di Rivoli (Torino), dove erano state utilizzate barelle da campo per sopperire alla mancanza di posti letto. A metà ottobre, la giunta ha organizzato un accordo con le strutture private per cercare di alleggerire reparti e pronto soccorso. Intesa che ha portato all’aumento potenziale dei posti letto di 4.500.

«L’accordo ci ha sicuramente aiutati ad ammortizzare meglio le richieste giornaliere», ha spiegato Giustetto. «Abbiamo meno pressione nei pronto soccorso in Regione. Ma questo non significa che ci sia meno richiesta: tra Covid e non Covid, l’afflusso negli ospedali resta comunque alto. La media settimanale è abbastanza stabile, ma non in diminuzione. Prima di pensare a cambiare fascia bisogna aspettare che inizi la discesa».

Tra le nuove strutture in arrivo c’è il padiglione 5 di Torino Esposizioni, un ospedale da campo che dovrebbe prevedere 458 posti letto e che però presenta non pochi problemi: come spiega il presidente, si tratta di una struttura sotto il livello del suolo che crea intoppi al ricambio d’aria. «Qualcuno ha pensato di dire di far lavorare gli infermieri e i medici non con la mascherina FFP2 ma l’autorespiratore», ha aggiunto Giustetto. «Una roba da matti. Che poi, oltre ad essere scomode da tenere per 8 ore, bisognerebbe anche averle».

Alla luce di tutto questo, secondo Giustetto, avere un quadro complessivo su come stanno andando le cose sul territorio non è immediato. Per di più, i dati che si hanno sui ricoveri e sui decessi sono difficili da decifrare, ed esporsi diventa molto difficile. «Non abbiamo i dati scomposti sui ricoveri e sugli asintomatici, ma solo quelli cumulativi», ha detto, sollevando una vecchia questione di carattere nazionale e che più volte è stata fatta notare all’Istituto superiore di sanità (l’ente che si occupa di diffondere il monitoraggio settimanale). Il passaggio a una fascia più moderata, insomma, sembra essere un rischio che i medici non sono disposti a correre.

Foto di copertina: EPA/ALESSANDRO DI MARCO

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