Il paradosso della Calabria: monta gli ospedali da campo e chiede di cancellare la zona rossa
Il gioco dei regni delle Regioni italiane finite in zona rossa è già di per se raggelante. Buona parte di loro chiede di allargare le maglie delle restrizioni nonostante gli ospedali siano allo spasmo, l’indice che identifica la velocità del contagio sia considerato inaffidabile da buona parte degli scienziati e il nostro tasso di mortalità da Covid sia il più alto d’Europa. Tra tutte, però, la posizione presa dalla Regione Calabria è la più paradossale. I dati nell’ultimo bollettino diffuso dalla Protezione civile, oggi 19 novembre, di per sè basterebbero a chiamare la tregua della discussione politica. Nelle ultime 24 ore, i nuovi contagi sono stati 936, su 4.662 soggetti testati. Dieci le vittime, anche se sono di poco scesi i ricoveri in terapia intensiva (ma non quelli ordinari che sono cresciuti). Basta? No, non basta. Perché anche prima della diffusione di questi ultimi numeri, nel pomeriggio, era stato pubblicato lo studio di Agenas che spiega come la percentuale di occupazione dei posti in terapia intensiva sia passata dal 13% al 34% in circa due settimane. E che al momento il 43% dei ricoverati negli ospedali della regione sia malato di Covid.
Il “caso” Gino Strada
Che la situazione calabrese sia grave sembra essere, del resto, un pensiero diffuso. Fino a questa mattina, sembrava plausibile e tutto sommato normale che il governo avesse chiesto a Gino Strada non – o non solo – di assumere il ruolo di commissario alla Sanità calabrese, ma di portare con sè a Reggio la sua organizzazione, Emergency, perché montasse ospedali da campo capaci di gestire i casi più gravi di Covid (con una procedura rischiosa, tra l’altro, visto che per la prima volta l’incarico sarebbe affidato a un ente privato ma senza gara, neppure rapida). Un tipo di intervento che Emergency organizza normalmente per paesi in guerra o segnati da gravissimi problemi economici, come la Sierra Leone o l’Uganda.
La versione di Spirlì
Nonostante questo, ancora questa mattina il governatore Spirlì dichiarava garrulo: «La Calabria si è ribellata alla zona rossa tout court perché noi avevamo già deciso, monitorando i territori, i Comuni da fare rossi o arancioni, per chiudere quelle zone. In Calabria, su 402 Comuni, 319 sono piccoli paesini, con meno di 5 mila abitanti. Quando chiudo un paese di 600 o 100 persone, decido in quell’istante che quella gente deve morire di fame entro un mese. Non si può essere schiavi di un freddo algoritmo che non tiene conto delle differenze». Se fosse come dice Spirlì, già durante la prima ondata di Covid buona parte dei cittadini italiani sarebbe deceduta o quasi (il 69% della popolazione vive in comuni piccoli). Non solo. Senza voler rubare il lavoro ai fact checker, basta fare una rapidissima ricerca in rete per scoprire che in Calabria solo il 5,85% della popolazione vive in paesi con meno di 5 mila abitanti. A temere la carestia – ammesso e non concesso che sia così che funzionano le zone rosse – dovrebbero essere Piemonte e Lombardia, che hanno il 19% della popolazione che vive in comuni sotto quella soglia. Da settimane, mentre l’emergenza avanza e la situazione complessiva della sanità calabrese certo non migliora per miracolo, aspettiamo di sapere chi prenderà le redini della situazione. Ci dicono che la decisione, ci auguriamo definitiva, sia prossima. Nel frattempo, speriamo non serva un commissario per riportare il dibattito pubblico calabrese a un livello accettabile di serietà.
In copertina ANSA | Il presidente facente funzioni della Regione Calabria Nino Spirlì.
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