Recovery Fund, il vertice dei leader europei non sblocca lo stallo. Resta il veto di Ungheria e Polonia
Il vertice in cui si doveva affrontare la crisi causata dal veto orientale si è concluso con un nulla di fatto, ma non poteva essere altrimenti. Il negoziato è rimandato al Consiglio europeo del 10 dicembre, dove non si potrà sbagliare. La videoconferenza di stasera, programmata per discutere il maggior coordinamento sulle misure di contenimento del Coronavirus, è iniziata facendo il punto sullo stallo legato al veto di Ungheria e Polonia sul piano di aiuti di 1800 miliardi di euro, composto dal Bilancio pluriennale (Mff) il Recovery Fund.
Dopo l’intervento di Charles Michel e Angela Merkel, la parola è passata a Viktor Orbàn, Mateusz Morawiecki e Janez Jansa. Il tutto è durato appena 17 minuti, senza particolari suppliche o rivendicazioni. Tutti hanno detto di volere una soluzione, dopodiché i 27 sono tornati all’ordine del giorno. Michel ha deciso che l’argomento dovrebbe essere discusso ulteriormente in un’altra occasione, al di fuori dal vertice di oggi. La posta in gioco è il più grande piano di aiuti mai progettato dall’Unione europea per superare la recessione più profonda della storia dell’Unione. Secondo funzionari e diplomatici a doversi muovere sono Budapest e Varsavia, ma anche loro si aspettano aperture che, specialmente il Parlamento europeo, non ha nessuna intenzione di concedere.
Per ora sono tutti d’accordo nel non essere d’accordo, ma il negoziato vero è già in corso con discrezione, in preparazione del vertice ufficiale. Funzionari e diplomatici non pensano che il veto polacco sia solido come quello ungherese, mentre quello slovacco viene considerato poco più che una mossa a uso politico interno. Il ragionamento ha senso. Anche se Morawiecki ha già avuto l’appoggio del Parlamento polacco, per Commissione e (soprattutto) Parlamento europeo è Orbán il leader da far capitolare, in quanto più rappresentativo dell’annosa questione delle violazioni dello stato di diritto.
Anche lo spregiudicato premier ungherese però è sembrato tranquillo. Il fatto che la discussione dell’argomento sia stata breve e senza drammi è un buon segno, spesso a Bruxelles il silenzio è un buon segnale. Ungheria e Polonia sono sotto osservazione già da molto tempo, anche formalmente. Su entrambi è aperta la procedura di accertamento prevista dall’articolo 7 dei trattati, neutralizzata e resa inefficace dalla mancanza dell’unanimità necessaria per portarla a conclusione. Il partito di Orbán, Fidesz, rischia anche di essere espulso dal Ppe. Il procedimento è rimasto in sospeso, tra il dire e il fare c’è la conta degli europarlamentari, Fidesz ne ha 13 e il Ppe ne ha bisogno; ma stavolta si potrebbe arrivare fino in fondo.
L’Europa sconta di non aver risolto la controversia sullo stato di diritto nel vertice di luglio. Allora, dopo estenuanti negoziati, si decise di lasciare che il collegamento tra fondi strutturali e rispetto dello stato di diritto fosse vincolato a un’interpretazione blanda, sostanzialmente inefficace. Orbán ottenne dalla Merkel in persona anche la promessa di far decadere la procedura dell’articolo 7. Il problema ora è tutto nelle mani della presidenza tedesca, che punta a risolvere la crisi prima della scadenza a fine dell’anno (a gennaio la presidenza passa al Portogallo). L’ostacolo da superare è il Parlamento europeo, che già aveva accettato di malavoglia il meccanismo attuale dopo averlo reso più stringente rispetto al precedente, causando la reazione di Budapest e Varsavia.
Per superare l’impasse, a Orbán e Morawiecki dovrà essere concesso qualcosa, e a loro volta dovranno accettare un passo indietro sulle alcune delle loro politiche. L’accordo dovrà poi ottenere l’approvazione unanime del Consiglio europeo e dell’Europarlamento. Se non si trova una soluzione, a gennaio l’Ue andrà in esercizio provvisorio di bilancio causando grossi problemi a tutti gli Stati e, come ormai appare inevitabile, l’erogazione del Recovery Fund potrebbe slittare fino alla fine della prossima estate.
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