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Dal Caffè scientifico con gli studenti alle lezioni a distanza, lo sfogo del prof: «La Dad è il veleno non la medicina» – L’intervista

20 Novembre 2020 - 08:20 Giada Giorgi
«Il punto è che se la scuola è davvero una delle cose più importanti, allora si chiude soltanto quando a chiudere è tutto il Paese» dice il prof. Niccolò Argentieri

Il professor Niccolò Argentieri è uno che nella scuola ci crede ancora. Insegnante di matematica e fisica al Liceo Scientifico Virgilio di Roma, è il fondatore del Caffè Scientifico. Una realtà viva di incontro e scambio culturale che, fuori dal classico orario scolastico, dà la possibilità a ragazzi e studenti di sedersi davanti a un vero caffè e condividere la bellezza della cultura spiegata con entusiasmo. Nessun voto in più da ottenere, nessun credito scolastico promesso, semplicemente la voglia, nata in maniera sorprendente anche nei ragazzi, di provare a vincere la sfida con i più grandi pensatori di tutti i tempi.

La realtà del prof. Argentieri è una di quelle più penalizzate dalle ultime misure anti Covid, che hanno impedito agli istituti superiori di continuare le attività in presenza. Insieme a lui, i suoi studenti e tutti quelli che in questi giorni stanno tenendo lezioni all’aperto in segno di protesta, si chiedono cosa ne sarà dei portoni chiusi a partire dal 4 dicembre. È per questo che il prof. del Virgilio continua a tenere alta l’attenzione sull’argomento e lo farà anche oggi, 20 novembre, in occasione dell’evento La scuola in una stanza.

«Le nostre porte sono ancora chiuse e questa sembra una condizione da ricordare a più di qualcuno. Nei mesi complessivi di pandemia ci si è molto più concentrati sul capire come poter riaprire, che al fatto che si stesse chiudendo, presentandola quasi come una scelta inevitabile. È tempo che tutto questo venga messo in discussione e che la chiusura delle scuole venga considerata al pari delle problematicità di qualunque altra misura di emergenza».

Professor Argentieri, vi sentite trattati in maniera diversa?

«Di fatto è così. Il tentativo di protesta che i ragazzi e gli studenti stanno facendo nelle piazze in questi giorni credo sia finalizzato alla richiesta di una riflessione più attenta su quello che sta accadendo. Credo che il loro diverso atteggiamento tra la primavera e adesso, così come anche da parte di noi insegnanti, sia data dal fatto che nella prima fase di pandemia è stata un’intera nazione ad essere chiamata al sacrificio. Ci si sentiva tutti parte della stessa condizione. Quello che ora arriva come iniquo è che mentre è possibile andare in un bar o in un parco, adesso nelle zone gialle ma fino a poche settimane fa ovunque, le scuole sono considerate luoghi più pericolosi di altri. Questa inversione di priorità è quella che lascia più perplessi».

SITO UFFICIALE DELL’ISTITUTO VIRIGILIO| La panoramica della sede del Liceo Scientifico Virgilio di Roma

Parla di un trattamento non equo, come è riuscito a spiegarsi le decisioni del governo?

«Mi pare evidente che in questo momento siamo nel pieno della scelta politica. Dove andare a rischiare e dove no diventa fondamentale. La delusione è che all’interno delle scelte politiche fatte finora non è stata concessa una priorità al mondo della scuola. A cominciare da quest’estate. È dal 4 maggio che la chiusura è diventata ferita difficile da rimarginare e giustificare. E quello che mi sembra ancora poco chiaro è che ci sono e ci saranno conseguenze a tutto questo».

Quali?

«La didattica a distanza viene presentata spesso come una medicina, una soluzione che può lenire un problema più grande. In realtà è un veleno. Perché contribuisce a rendere la chiusura delle scuole un gesto meno forte di quello che in realtà è. Alcune cose certamente permette di farle, ma di fatto rende la chiusura apparentemente più facile e lo fa in modo del tutto ingannevole. Per i ragazzi del liceo, che a differenza di elementari e medie, subiscono attualmente la chiusura totale, la Dad sta comportando conseguenze evidenti anche per il solo fatto che è completamente innaturale. Innaturale rispetto al ruolo che spesso nella fase di vita di questi ragazzi l’ambiente scolastico si trova a ricoprire. Mentre per le elementari e per le medie sono più frequenti i casi in cui un bambino è più contento di restare con i propri genitori, per un liceale la scuola a casa è spesso un’aberrazione.

Un liceale ha bisogno di essere persona fuori dal suo essere figlio, ha bisogno di buttarsi nel mondo esterno per crearsi un’identità diversa, acquisire consapevolezze maggiori. In alternativa finiscono per chiudersi perennemente nella cameretta, quando ce l’hanno, e di vivere lì, tentando di ricrearsi un mondo di autonomia. Senza considerare poi le conseguenze sulla didattica in sé, completamente dimezzata e vanificata rispetto agli sforzi fatti mesi addietro per continuare il progetto formativo. La maggior parte degli argomenti hanno avuto il bisogno di essere ripresi da capo».

Riaprire senza alcun dubbio dopo il 4 dicembre quindi?

«Lo spero ma sarà difficile. E quello che temo di più è che questa condizione possa accompagnarci anche all’inizio dell’anno prossimo. Rimanere a distanza anche a gennaio sarebbe un colpo dal quale non credo psicologicamente potremmo rialzarci. Non è un invito a rischiare né tantomeno una volontà di fare fazioni a prescindere. Ma il punto è che se la scuola è davvero una delle cose più importanti come molti dicono, allora si chiude soltanto quando a chiudere è tutto il Paese. E non certo per prima. Questa rimane un’anomalia che non smette di provocarci disagio pratico e intellettuale».

Come stanno i suoi studenti?

«Hanno occhi stanchi e menti molto provate. L’anno scorso erano riusciti a superare la condizione anche per una forma di adrenalina che ci teneva tutti vigili. Adesso devono fissare per ore una lavagna dall’altra parte dello schermo e la stanchezza mentale che percepisco in loro è aumentata di molto. Niente a che vedere con il clima a cui il Caffè, per esempio, oltre che il lavoro fatto in classe, li aveva abituati».

Com’era?

«C’era incontro, di fiducia, di risposta attiva alla chiamata dell’insegnante non come obbligo ma come simbolo di complicità. Il prolungamento di un rapporto positivo che si allargava inevitabilmente oltre al gruppo classe, che mirava a creare una tensione intellettuale con altri istituti o con gli esperti che di tanto in tanto intervenivano. Stare insieme magari fino all’imbrunire faticando insieme sula risoluzione di rompicapo e questioni sfidanti era diventata una modalità affascinante di fare scuola. E non smette di esserlo. Mi hanno chiesto di continuare a distanza, ma ho detto no. La ripresa del Caffè dovrà essere simbolo della ripresa di un intero sistema scolastico, fino ad allora aspetteremo di poter tornare».

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