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Il racconto di Aja, la madre ragazzina che ha visto morire suo figlio dal barcone. La risposta a chi dice che sarebbe colpa sua – Il video

22 Novembre 2020 - 14:33 Maria Pia Mazza
«Ho già perso Yusuf. Cosa deve succedere ancora? Dio solo lo sa», racconta Aja all’Unhcr dopo il naufragio al largo delle coste della Libia in cui ha perso il figlio di 6 mesi

«I nostri occhi non siano i soli a vedere». Così, solo 10 giorni fa la Ong spagnola Open Arms pubblicava il video dove venivano mostrate le operazione di soccorso di 118 persone, di cui 12 donne e due neonati, dopo il naufragio di un’imbarcazione davanti alle coste della Libia. Un video in cui si sentono distintamente le urla di una giovane donna, Aja, e del «pianto disperato di una madre alla ricerca del suo bambino di sei mesi, in mezzo al caos. Lo abbiamo recuperato dal mare in arresto respiratorio, portato a bordo, ma qualche ora dopo il suo corpicino non ha resistito. Lei è la madre di Joseph». Adesso Aja, da poco divenuta maggiorenne, è ospite del centro di accoglienza di Lampedusa e ha raccontato la propria storia e cosa è successo durante il naufragio dello scorso 11 novembre (su cui la procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta) a Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr).

La storia di Aya, sposa bambina a 13 anni

Un viaggio, disperato e speranzoso, a bordo di quel gommone intrapreso per fuggire dalla Libia, perché «non c’era da mangiare – racconta Aja. «Vivevo a Tripoli, e non è facile per noi neri. I bambini ci tirano le pietre addosso». E andando a ritroso, la storia della vita di Aja diventa ancora più buia. Costretta a sposarsi a soli 13 anni dal padre, dopo essere rimasta incinta, viene abbandonata dal marito. Aja decide dunque di trasferirsi in Mali per lavorare, per poter mantenere la propria famiglia e il primo figlio rimasto in Guinea con la nonna, e successivamente di spostarsi ulteriormente in Libia per lavorare, dapprima facendo pulizie e in un ospedale. E’ allora che rimane incinta di Yusuf e successivamente decide di partire per l’Italia per poter mantenere il neonato, così come la sua famiglia e il suo primo figlio.

La speranza per il futuro

«Dio mi ha dato Yusuf e Dio me l’ha preso. Cosa devo dire? Il mio bambino è morto. Non ho più nulla», prosegue Aja, il cui figlio riposa ora nel cimitero dei migranti di Lampedusa. E ora la giovane non può far altro che sperare. Sperare di poter imparare l’italiano e di potersi integrare e lavorare, per aiutare – ancora una volta – la propria famiglia e il primogenito. «Ho già perso Yusuf – conclude – Cosa deve succedere ancora? Dio solo lo sa». Le parole di Aja e la sua tragedia non lasciano spazio a interpretazioni o a commenti polemici. Per quanto ci sia stato chi, come la giornalista di Libero Azzurra Barbuto, abbia insisto sin da subito ad attribuire la responsabilità della morte del piccolo Yusuf a sua madre, come ripete ancora sui social.

Video: Twitter / @UNHCRItalia

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