Uno zar in cravatta per la rivoluzione verde di Biden: per Kerry la vera sfida è sfuggire al fuoco amico
«Here Come the Adults» titolava ieri la rivista The New Republic commentando le prime nomine della futura amministrazione Biden. Ed eccoli “gli adulti” in questione: Anthony Blinken segretario di Stato, Jake Sullivan alla Sicurezza nazionale, Linda Thomas-Greenfield ambasciatrice all’Onu, l’ex capo della Federal Reserve Janet Yellen al Tesoro. Figure di garanzia scelte per ricostruire – pezzetto dopo pezzetto – un sistema politico e burocratico mandato all’aria da un presidente che, in soli quattro anni, è riuscito nell’impresa di sovvertire tutte le dinamiche di decenni di establishment americano rosso e blu.
Dall’anti-sistema di Trump al nuovo-vecchio-sistema di Biden
Qualche perfido osservatore potrebbe dire che – al di là del facile elenco di primati di genere ed etnia – i nomi trapelati finora sono l’usato sicuro dell’amministrazione Obama, professionisti molto conosciuti nei palazzi di potere e abituati all’arte del compromesso. Una vittoria per il “vecchio” partito democratico americano dei pranzi al National Democratic Club di Capitol Hill, mentre cresce il malcontento dell’ala più radicale e movimentista che di certo avrebbe preferito Bernie Sanders ed Elizabeth Warren a gestire le enormi diseguaglianze di un Paese con 40 milioni di poveri.
Eppure, già in questa prima tornata di nomine, che dovrebbe essere ufficializzata a breve, ce ne è una che indica il potenziale rivoluzionario nascosto tra le giacche di cachemire e i curriculum colmi di stellette dei nuovi rappresentanti del governo. L’ex senatore ed ex segretario di Stato di Obama, candidato alla presidenza nel 2004, John Kerry torna alla Casa Bianca con un ruolo nuovo di zecca e pieno di speranze: inviato speciale per l’emergenza climatica. «L’America avrà presto un governo che tratterà l’emergenza climatica come un’urgente minaccia alla sicurezza nazionale», ha twittato pochi minuti dopo la notizia.
Un cambio di passo radicale rispetto a Trump, che ha fatto del negazionismo climatico un asset della sua presidenza. Ma la nomina è anche un segnale di continuità con l’amministrazione Obama, che proprio grazie all’impegno di Kerry portò l’America ad avere un ruolo centrale negli Accordi sul clima di Parigi per ridurre le emissioni di gas serra e supportare i Paesi più poveri nell’adozione di fonti energetiche meno inquinanti. Si deve in parte a Kerry anche la trasformazione in legge del Clean Power Plan di Obama, che prevedeva un massiccio passaggio a fonti di energia pulita, come quella fotovoltaica ed eolica.
Il nodo della sinistra radicale
C’è da scommettere che la credibilità e la solidità dell’ex segretario di Stato renderà più semplice non solo il raggiungimento di obiettivi concreti su territorio americano ma anche la costruzione di un fronte atlantico per l’emergenza climatica. Eppure, se la carta di Kerry è quella vincente per portare al Congresso il sostegno dei repubblicani moderati sul finanziamento di misure ambientali, appare più complicata la convivenza con le ambizioni radicali della sinistra del partito democratico, a cominciare dal New Green Deal di Alexandria Ocasio Cortez, già rinnegato da Biden durante la campagna elettorale.
Ci sono due visioni ambientaliste che convivono e si scontrano in questo momento nel partito come in America: da un lato, i realisti che vogliono portare la lotta per il clima in agenda con i tempi e le modalità degli accordi e dei summit; dall’altro, i sognatori che sentono l’urgenza di un problema che non può più aspettare. Dovere conciliare queste due esigenze sarà tra i compiti più ardui dell’ex senatore di Stato, già battezzato a Washington “lo zar del clima”.
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