Le ricercatrici premiate da Mattarella per aver isolato il ceppo Covid sono ancora precarie. E in due si sono prese pure il virus – Le interviste
«Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta». Le abbiamo lasciate così le tre ricercatrici del Sacco di Milano, Alessia Lai, Annalisa Bergna e Arianna Gabrieli mentre, insieme al collega Maciej Tarkowski e ai loro coordinatori, l’infettivologa Claudia Balotta (a capo del team) e il professor Gianguglielmo Zehender, festeggiavano il grande successo. Quello di essere riuscite a isolare il ceppo italiano del Coronavirus. «Credetemi, è stato tutto incredibile, anche perché ci aspettavamo solo qualche campione da analizzare e, invece, con l’esplosione della pandemia, siamo stati travolti. Avevamo riempito tutto il laboratorio. Così ci siamo messi al lavoro, per 13 ore al giorno, e non ci siamo mai fermati fino a quando non abbiamo raggiunto il risultato che speravamo», ci racconta Alessia Lai.
Un lavoro di squadra che ha dato un contributo rilevante alla lotta al Covid, specialmente nella ricerca di nuovi farmaci e vaccini. Per questo i giovani ricercatori sono stati premiati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Eppure, premi a parte, la loro vita, a distanza di nove mesi, non è cambiata molto. Precari erano e precari sono. Per di più due di loro hanno anche contratto il Coronavirus.
Sognano l’indeterminato: hanno ancora contratti da 8 mesi o 3 anni
Arianna ha un contratto a tempo determinato di 8 mesi, con scadenza a febbraio 2021, come dirigente biologa al Sacco di Milano; Annalisa ha iniziato il suo dottorato che durerà tre anni, dunque fino al 2023. Poi chissà. Alessia, anche lei, ha un contratto a tempo determinato da ricercatrice per tre anni a partire da luglio 2020; Maciej, invece, è un libero professionista con partita Iva. Di origini polacche, si è laureato presso la Facoltà di Biologia e Scienze della Terra dell’Università di Lodz. Ha lavorato all’Accademia polacca delle Scienze e dal 2007 si è trasferito in Italia.
Chi si aspettava che i quattro ricercatori fossero stati ricompensati, anche in termini economici e di carriera, purtroppo, dovrà ricredersi. I diretti interessati, in realtà, non si aspettavano nulla. Sapevano che sarebbe andata così, ci raccontano, anche se qualcuno continua ancora a sperarci e non nasconde la delusione.
«Impossibile crearsi una famiglia, c’è troppa incertezza»
«Dall’ospedale in cui lavoro mi aspetterei la stabilizzazione a tempo indeterminato o almeno un rinnovo, finiti gli otto mesi, del contratto a tempo determinato. Non vorrei più tornare ad essere una partita Iva senza ferie né malattie né contributi pagati», ci confida Arianna Gabrieli, 38 anni, che viene da Galatina, in provincia di Lecce. Costretta a lasciare la sua terra per cercare fortuna, ha prima studiato a Roma, laureandosi in Biotecnologie mediche, e poi si è trasferita a Milano. Al Sud, ci confida, «è impossibile fare questo lavoro».
Così come diventa difficile avere (e mantenere) una famiglia: «E come faccio? Non posso pensare a un matrimonio o a un figlio. Ho uno stipendio dignitoso ma sono precaria. Che ne sarà di me tra alcuni mesi? Tornerò alla partita Iva?». A salvarla da questo vortice di incertezza c’è la passione, quella che non è mai stata “precaria” nella sua vita: «Devo tutto alla mia insegnante di Scienze naturali del liceo. Lì ho capito cosa avrei fatto da grande, scoprendo la passione per la biologia. Poi, infatti, ho deciso di restare qui, nel mio Paese, senza mai pensare di andare all’estero, perché credo nella ricerca in Italia, anche se poco finanziata».
«Non ci aspettavamo nulla, sogno di diventare prof»
«Non mi aspettavo nulla in realtà, ero certa che sarebbe andata così. Nei prossimi anni vorrei ottenere un contratto che mi dia quanto meno la certezza di intraprendere la carriera accademica visto che, al momento, non ho una prospettiva certa», dice Alessia Lai, 41 anni, partita Iva, come il collega Maciej. Da 15 anni al Sacco, si è avvicinata alla ricerca scientifica già alle superiori quando ha capito di voler fare virologia. Da lì gli studi in Biologia alla Statale di Milano, poi l’internato di ricerca e infine il dottorato. Si è occupata di HIV ed è sempre stata affascinata dal fatto che «agenti così piccoli potessero fare danni così grandi». E con il Covid ne ha avuto la prova. «Mai nella mia vita mi sarei aspettata una cosa del genere, mai», ci dice.
Ma non è stato tutto rose e fiori. Anzi. Tra un contratto a termine e l’altro – perché così lavorano i ricercatori in Italia – ha fatto la supplente in un istituto superiore a Rho. Ha insegnato Scienze della terra e Biologia, per 4 mesi. Le era stato proposto anche di «andare all’estero con un dottorato» ma ha rinunciato perché molto legata alla sua Parabiago, dove ancora vive. «Con fatica sono arrivata dove volevo, certo ora manca solo la ciliegina sulla torta. Diventare professoressa associata del mio ateneo a cui ormai sono affezionata», ammette.
«L’amore per la biologia nasce a 13 anni»
La più giovane di tutte, Annalisa Bergna, 30 anni, si dice «soddisfatta del suo dottorato», questo è «il percorso che sognava» ed è ancora emozionata per il giorno in cui ha conosciuto Mattarella: «Una giornata quasi surreale, bellissima». Ama lo sport – soprattutto la pallavolo che, però, «non pratica da tre anni» – e anche lei è sempre stata precaria: per sua fortuna non è dovuta emigrare altrove, essendo originaria di Paderno Dugnano, nel Milanese, dove vive con il suo compagno.
Laureatasi nel 2016 in Biologia alla Bicocca di Milano ha svolto un anno di tirocinio al Sacco dove poi è rimasta: «Mai pensato di andare all’estero. Certo, se fosse andata diversamente, un pensierino l’avrei fatto. Ma sono stata fortunata». Un amore, quello per la biologia, che nasce addirittura a 13 anni quando, con grande coraggio, ha scelto l’istituto tecnico biologico anziché il liceo come le sue amiche.
Due di loro hanno preso il Covid
Due di loro, intanto, hanno preso il Covid: stanno bene e lavorano da casa, nel limite del possibile. Tutti gli altri, invece, sono stati sottoposti continuamente a test antigenici e test sierologici («anche quotidianamente», ci dicono) e, almeno fino ad ora, l’hanno scampata. «Sempre negativi». La paura è stata tanta. Ora, però, resta l’amaro in bocca.
I quattro ricercatori, infatti, hanno lavorato 13 ore al giorno senza conoscere pause, si sono allontanati dalle loro famiglie per non metterle in pericolo, poi hanno isolato il ceppo del Coronavirus, sono finiti su tutte le prime pagine dei giornali e, infine, sono stati premiati al Quirinale. Il risultato? Oltre ad essersi beccati il Covid, i loro contratti sono rimasti quelli di prima. Una vita da precari, sempre e comunque.
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