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Iran, rinviata l’esecuzione del ricercatore Djalali. L’appello del collega italiano: «Solo l’Ue può fare qualcosa ora» – L’intervista

03 Dicembre 2020 - 07:41 Cristin Cappelletti
L’esperto in medicina dei Disastri, con doppio passaporto svedese e iraniano, è stato per tre anni ricercatore al Crimedim di Novara. Il coordinatore scientifico del centro Luca Ragazzoni dice a Open: «Chiediamo che anche Di Maio prenda a cuore questo caso»

Martedì 1 dicembre il trasferimento nella prigione di Rajaei Shahr, a Kajar, in vista dell’esecuzione che sarebbe dovuta avvenire la mattina dopo. Ieri, 2 dicembre, l’annuncio di un rinvio di qualche giorno. La vita di Ahmadreza Djalali, il ricercatore con passaporto svedese e iraniano, arrestato e condannato a morte in Iran nel 2016 continua a essere appesa a un filo. Da quattro anni la moglie Vida Mehran Nia e l’avvocata Helaleh Mousavian stanno provando a sospendere l’esecuzione, e a far uscire il ricercatore di prigione.

Tanti gli appelli arrivati dalla comunità internazionale e dall’Italia dove Djalali ha passato tre anni all’università del Piemonte Orientale come studente del Crimedim, un centro di ricerca in Emergenza e Medicina dei disastri. «L’ho conosciuto quando ha frequentato il nostro Master europeo», racconta a Open Luca Ragazzoni, ex docente e poi collega di Ahmadreza Djalali al Crimedim. «Nel 2013, dopo aver completato il dottorato in Svezia in Medicina dei disastri, si è trasferito qui a Novara grazie a un assegno di ricerca – spiega Ragazzoni -, abbiamo lavorato soprattutto su diversi progetti europei nell’ambito della preparazione ospedaliera ai disastri».

Djalali viaggiava spesso in Iran, «almeno una volta all’anno», racconta Ragazzoni, perché parte della sua famiglia vive ancora li. «E normalmente univa anche delle attività scientifiche. Era infatti stato invitato alle università di Shiraz e Teheran. Ma durante la sua ultima permanenza è stato catturato». Le notizie hanno però cominciato ad arrivare in modo confuso, la moglie parlava di un grave incidente e che il marito si trovava in coma farmacologico. «Solamente a ottobre, sei mesi dopo, abbiamo saputo che era stato arrestato», spiega Ragazzoni che negli ultimi mesi ha passato diverso tempo in Svezia con la moglie e i figli di Djalali. «L’ultima chiamata con la moglie è stata la scorsa settimana», dice Ragazzoni.

L’accusa rivolta a Djalali, come a molti prigionieri iraniani con doppio passaporto, è quella di collaborare con i servizi segreti israeliani e di aver aiutato ad assassinare due scienziati nucleari iraniani, Massoud Ali Mohammadi e Majid Shahriari, fornendo ad agenti del Mossad informazioni su di loro. Mentre tutti i tentativi di mediazione con l’ambasciata iraniana in Italia sono caduti nel vuoto, i familiari e Ragazzoni vedono un’unica soluzione ora: appellarsi all’Unione Europea. «Credo che in questo momento l’unica istituzione che possa ancora e veramente fare qualcosa è la Commissione europea insieme al ministro degli Esteri svedese. Anzi, chiediamo anche all’onorevole Di Maio di prendere a cuore questo caso».

Montaggio Video: Davide Gangale

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