Coronavirus, il Dpcm è troppo blando: non si fermano i contagi e non si svuotano gli ospedali. Ecco i grafici
Quanto è stato determinante il Dpcm del 3 novembre durante questa seconda ondata della Covid19? Il Governo Conte aveva diviso l’Italia in tre zone di rischio con la speranza di migliorare la situazione, ma dalle analisi svolte da Open insieme al fisico Enrico D’Urso risulta meno efficace rispetto al lockdown attuato a inizio Pandemia. Si è scelta una via blanda rispetto al lockdown, per ragioni economiche e sociali, senza però frenare con decisione la diffusione del virus e di conseguenza i contagi. Durante l’approvazione del Dpcm del 6 novembre era già presente un calo degli incrementi delle terapie intensive, per poi iniziare una lenta discesa che non è dipesa dai provvedimenti governativi quanto dal numero dei decessi.
Quello che risulta evidente è che si è ottenuto una mitigazione della diffusione del virus, non un calo deciso, infatti i grafici mostrano che gli ospedali si svuotano più lentamente, proprio perché continuano a presentarsi nuovi contagi e conseguentemente nuovi pazienti. Questo articolo segue quello precedente del 14 novembre, dove abbiamo analizzato le differenze tra prima e seconda ondata, tenendo in considerazione il numero dei ricoveri, delle terapie intensive e dei decessi in relazione alla capienza massima degli ospedali nell’assistere i casi gravi (SSN), valori che ci aiutano a capire meglio come si diffonde il nuovo Coronavirus in Italia.
La situazione prima del Dpcm
La curva dei pazienti ricoverati con forme gravi di Covid-19 si stava avvicinando al limite della SSN, fissato a cinquemila posti in terapia intensiva con un massimo di settemila relativo ai posti totali, tenuto conto che l’emergenza sanitaria avrebbe potuto assorbire anche i letti destinati ad altri reparti. Sovrapponendo le curve della prima e della seconda ondata, facendo coincidere nei grafici le loro date di inizio, i rapporti tra ospedalizzati, terapie intensive e decessi erano più bassi rispetto al primo picco. Questo dato ci ha fatto riflettere su quanto eravamo impreparati all’emergere del virus.
Nella prima parte della pandemia abbiamo tanti morti in funzione delle terapie intensive. Non sapevamo quali protocolli terapeutici adottare e avevamo un grande numero di anziani ammalati, mentre all’iniziare del secondo picco c’erano pochi anziani e sapevamo quali misure mediche adottare. Il limite di capienza degli ospedali era un rischio già evitabile, così come il raggiungimento di un picco per poi iniziare una discesa, non solo in ragione dei guariti, ma anche dei morti. Rimane una costante, ossia la presenza nella popolazione di soggetti maggiormente a rischio che si riflettono nei grafici osservati nel precedente articolo. Vediamo ora quanto è successo durante l’ultimo Dpcm, in attesa dell’entrata in vigore del più recente dal 21 dicembre al 6 gennaio, dopo il quale torneremo a osservare i grafici.
Terapie intensive: il Dpcm ha influito poco
Rispetto al lockdown abbiamo regioni con misure più lievi (zone arancioni e gialle), contrapposte ad altre con maggiori restrizioni (zone rosse). Secondo quanto emerso nei documenti relativi ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico – noti grazie a una richiesta della Fondazione Einaudi – questa divisione in tre tipologie di regioni era stata deliberatamente ignorata dall’amministrazione di Giuseppe Conte, portando al lockdown e suscitando così diverse critiche. Come possiamo vedere nel primo grafico, la curva dei ricoveri in terapia intensiva (linea blu) stava già calando da circa un mese, quindi era fisiologico che si sarebbe formata una gobba per poi avere un calo.
In altre parole, l’andamento era lineare e non più esponenziale, come ci si aspetta da un virus del genere, se lasciato libero di circolare. Il problema era quello di non farla proseguire oltre il limite della capienza, anticipando il più possibile la discesa, perché statisticamente avremo in proporzione non solo pazienti guariti, ma anche delle vittime.
Gli ospedali si vuotano più lentamente
Il secondo picco arriva il 25 novembre, con 3848 terapie intensive occupate (con un limite stimato sui cinquemila), oltre hanno cominciato a calare. Con che velocità rispetto al primo picco?
Nel secondo grafico vediamo un confronto degli incrementi (sopra lo zero) e decrementi (sotto lo zero), tra prima e seconda ondata (rispettivamente linea rossa e blu). Il lockdown è associato a un calo più netto dei ricoveri in terapia intensiva, rispetto a quelli visti durante il Dpcm del 6 novembre. Per faci un’idea di cosa potrebbe essere successo ripassiamo alcuni concetti, che potete approfondire meglio nei nostri articoli precedenti. Il tasso di riproduzione del SARS-CoV-2 (Ro=2) è tale da avere una diffusione esponenziale della Covid-19, ed è una proprietà intrinseca del patogeno.
Con l’arrivo delle misure di contenimento, come il distanziamento sociale, si considera l’indice di trasmissione (Rt) che non dipende solo dal virus, ma soprattutto dalla presenza di ostacoli alla sua diffusione. Di conseguenza, avere un Rt basso non indica necessariamente lo scampato pericolo, ma solo che esiste una qualche barriera alla diffusione dell’epidemia, ragione per cui lo sviluppo di appositi vaccini resta sempre il miglior provvedimento possibile da integrare agli altri.
Perché avere meno terapie intensive occupate non è sempre una buona notizia
È anche vero che ospedali e personale medico devono essere mantenuti al meglio, per questo occorre non penalizzare più di una certa soglia l’economia del Paese. Osservando questa fase di calo abbiamo visto che le terapie intensive si svuotano, anche se più lentamente: cosa vuol dire? Il terzo grafico mostra i rapporti tra terapie intensive e ricoveri (linea verde), tra morti e terapie intensive (linea blu), e l’andamento medio settimanale del rapporto (linea rossa).
Vediamo che c’è poco da stare allegri, perché aumentano i morti: sono questi a incidere particolarmente sul calo dei posti occupati. Il 4 dicembre il rapporto morti/terapie intensive era circa del 20%. Osserviamo in particolare, che durante l’estate si ammalavano soprattutto i giovani, adesso aumenta l’età media dei pazienti gravi.
Bene ma non benissimo
Nell’ultimo grafico osserviamo una sovrapposizione dei ricoveri in terapia intensiva tra prima ondata (linea blu) e seconda ondata (linea rossa).
Nella prima ondata la discesa era più rapida, ma questo perché c’erano molti più decessi. Nella seconda ondata si ammalano più persone, ma nell’arco di più tempo. Di fronte ai grafici, l’ultimo DPCM sembra mitigare la curva senza apportare un netto miglioramento della situazione. Abbiamo preferito provvedimenti meno rigidi nel lungo periodo ad altri più rigidi nel breve periodo, per venire in contro a comprensibili esigenze economiche.
Alla luce di questo, forse non sarà un grande sacrificio affrontare le nuove misure previste durante le Feste, visto che lo scopo è quello di viverne molte altre nei prossimi anni, possibilmente assieme ai membri che tendono a riunire maggiormente le famiglie in queste occasioni, generalmente i più anziani.
Perché i modelli alternativi non avrebbero funzionato
L’obiettivo del Dpcm del 6 novembre era quello di appiattire la curva della seconda ondata. Esistevano alternative ancora più blande? Qualcuno suggeriva il modello svedese, ma abbiamo visto che questo non è attuabile in Italia, con una popolazione più elevata e conseguentemente meno posti in terapia intensiva. Del resto, i grafici della Svezia non sembrano mostrare alcun virtuosismo.
Un altro modello è quello proposto dai firmatari della Great Barrington Declaration, su cui un successivo studio di The Lancet poneva non pochi dubbi: si voleva isolare la popolazione anziana, lasciando che il resto si immunizzasse naturalmente; ma non è possibile raggiungere l’immunità di comunità naturalmente; né i firmatari della Great Barrington spiegavano, come sarebbe stato possibile tenere tutti i soggetti più vulnerabili perfettamente al riparo.
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