Patrick Zaki, parla Luigi Manconi: «L’Italia è succube dell’Egitto. Regeni? Casi distinti, ma uniti da Al Sisi» – L’intervista
Un divario incolmabile. Un muro, e di quelli insormontabili, è quello che impedisce di comprendere perché Patrick Zaki, un ragazzo di 29 anni, uno studente, un attivista, continui a essere recluso nel carcere di Tora, l’inferno in terra alla periferia sud del Cairo, in Egitto, e senza neppure una condanna. Patrick, accusato di sedizione (in base ad alcuni post pubblicati da un account Facebook che i suoi legali considerano falso), dorme per terra nelle carceri egiziane dal 7 febbraio scorso. E ci resterà per altri 45 giorni, ha deciso una corte per l’antiterrorismo del tribunale del Cairo. «Non ero tra gli ottimisti. Perché le regole di un regime dispotico sono totalmente diverse da quelle di un sistema democratico. E la razionalità politica che guida quei regimi non è facilmente decifrabile», dice a Open Luigi Manconi.
Ex senatore del Pd, già presidente della commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, oggi presidente dell’associazione A Buon Diritto, Manconi segue questo caso fin dall’inizio. Come fin da subito si è occupato della scomparsa di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e trovato morto sempre al Cairo nel 2016. E così come – tra l’altro – in Italia, è stato fin dal primo momento accanto alla famiglia Cucchi nella ricerca della verità per Stefano, morto mentre era nelle mani dello Stato dopo l’arresto nel 2009.
«Gli elementi che a noi che viviamo nei Paesi democratici suggeriscono un possibile comportamento quasi mai coincidono con le scelte di coloro che quei regimi dispotici dominano: è questo il problema», aggiunge Manconi. «Quando facciamo delle previsioni su quei regimi siamo mossi da argomenti e criteri che quei regimi non solo ignorano, ma mortificano».
Patrick Zaki resta in carcere. Come giudica questo esito?
«Purtroppo su di lui c’è un evidente intento persecutorio che ci sfugge ma che sembra determinatissimo. Mi colpisce che questa ostinazione persecutoria si applichi nei confronti di un ragazzo che ritengo essere un giovane europeo e italiano. Perché il perimetro della cittadinanza non è solo quello dei confini formali: un giovane egiziano che viene in Europa, che vuole stare a Bologna, frequentare l’università più antica del mondo e che da quel carcere orribile dove si trova rivendica ostinatamente la sua volontà di studiare è senza alcuna retorica un cittadino del mondo. Europeo e italiano».
E come giudica l’operato di Italia ed Europa in questa vicenda?
«L’Italia e l’Europa dovrebbero sentirsi molto più coinvolte di quanto appaia dal loro comportamento. Dovrebbero considerare l’incolumità di Patrick Zaki un affare interno dell’Italia e dell’Europa, un interesse nazionale e continentale e non – come sembrano dire le autorità italiane ed europee – un fatto semplicemente umanitario. Certo, lo è. Ma è molto di più: è una questione che mette in gioco la sovranità nazionale dell’Italia. Perché non è pensabile che uno studente della nostra università sia sottoposto alle violazioni dei diritti fondamentali della persona cui è sottoposto Zaki in Egitto».
L’Italia dovrebbe prendere finalmente in mano questa battaglia anche nel nome di Giulio e alla luce delle ultime evoluzioni del caso Regeni?
«Io preferisco non intrecciare troppo le cose. Sono due vicende distinte che tuttavia sono unite da un vincolo indissolubile. Un vincolo che non è rappresentato da Giulio o Patrick, ma, ahinoi, da Al Sisi: ciò che unisce le due vicende è la dittatura esercitata da quel despota».
Che margini realistici ci sono secondo lei per un cambio di passo nella politica italiana? Un cambio di passo che non si limiti a parlare di «questioni umanitarie»?
«Chi come me segue la vicenda di Giulio Regeni da quel febbraio del 2016 ovviamente non può nutrire troppe speranze. Il governo italiano – nel corso di questi anni – ha avuto occasione di adottare posizioni di fermezza che ogni volta ha omesso di assumere».
Perché?
«Le ragioni sono tante. Quella in genere più citata per pigrizia intellettuale e politica – gli affari economici che uniscono i due Paesi – a mio avviso non è la principale. Certo, l’import-export italo egiziano è notevolissimo, sia chiaro. Ma penso che l’Italia abbia soprattutto patito una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di un Paese e di un regime considerato cruciale per quella regione del mondo».
Pensiamo di non poterci permettere di fare “torto” alcuno all’Egitto?
«Esatto. E questo pensiero è condiviso da tutti i Paesi occidentali. Il che ha dato all’Egitto uno spazio di manovra immenso e la possibilità di esercitare un dominio interno davvero liberticida: in Egitto ci sono 60 mila prigionieri politici e la tortura è un sistema istituzionalizzato».
Tra questi 60mila, il particolare accanimento nei confronti di Patrick Zaki risiede quindi nel suo essere troppo “occidentale”?
«Sì. Tutti i regimi autoritari sono regimi paranoici. Vivono nevroticamente lo straniero, che è sempre il nemico. Quindi chi con lo straniero ha frequentazioni libere è a sua volta un potenziale nemico. Patrick Zaki che va a Bologna, che si ambienta in quella città, che afferma di volersi formare è “sospetto” per i regimi autoritari, che sono sempre sciovinisti».
Occidentale e anche attivista dei diritti della comunità Lgbtq e sulle questioni di genere.
«In una cultura egiziana che tuttora è patriarcale e maschilista».
Non possiamo quindi aspettarci alcun cambio di rotta della politica italiana né su Regeni né su Zaki? Lei è pessimista?
«No, non lo so. Posso dire cosa finora è stato. Fino all’ultimo mi auguro che qualche cambiamento ci sia».
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