Danni collaterali – La pandemia del lavoro colpisce duro manager e startup: «Le più in crisi sono quelle nate nel 2019»
Oltre l’emergenza sanitaria, che si manifesta con migliaia di ricoveri e, purtroppo, tanti, troppi decessi, i primi effetti della pandemia sulla vita delle persone si riverberano sul mondo del lavoro. L’occupazione, motore delle giornate di ogni individuo, ha smesso di essere una certezza per molti. Chi, invece, stava per lanciarsi nel mercato, da marzo a oggi ha trovato e troverà ancora molte porte chiuse. La crisi del Covid è anche questo: saracinesche che si abbassano per l’ultima volta, curriculum che non saranno mai letti da responsabili risorse umane in cassa integrazione, imprenditori che continuano a indebitarsi sperando che, il prima possibile, gli affari possano tornare ai livelli del 2019, quando nessuno sapeva dove fosse Wuhan.
Nel secondo trimestre di quest’anno, sono stati bruciati quasi mezzo milione di posti di lavoro in Italia. Secondo l’Istat, per l’esattezza, sono 470 mila gli occupati rimasti a casa, tra lavoratori precari e partite Iva. Gli altri, che rientrano nella categoria dei lavoratori dipendenti, non possono certo ritenersi salvi: quando, a marzo 2021, scadranno le misure del governo – la cassa integrazione Covid e il blocco dei licenziamenti – è probabile che le ristrutturazioni aziendali, necessarie dopo una crisi economica senza precedenti nel terzo millennio, i licenziamenti fioccheranno nelle grandi, nelle medie e nelle piccole imprese.
I numeri delle contrazioni occupazionali
Sono diversi gli studi che fotografano la contrazione del mercato del lavoro, già in atto. Secondo i calcoli dell’Ordine dei Consulenti del lavoro, in Italia, durante il primo lockdown, sono evaporate 219 mila partite Iva: un decremento del 4,1%. Il calo del fatturato ha riguardato il 79% dei professionisti. La fascia di lavoratori autonomi più colpita dalla disoccupazione innescata dal Covid è quella di età compresa tra i 30 e i 39 anni: 110 mila lavoratori in meno. Un dato che, oltre ad allarmare dal punto di vista numerico, sottintende un aspetto squisitamente sociale: la popolazione più colpita è quella che si trova negli anni in cui avviene il consolidamento della propria posizione professionale e in cui, spesso, si avvia un’attività in proprio.
Anche l’Istat ravvisa una particolare incidenza della contrazione occupazionale sui più giovani: l’8% degli under 35 hanno perso il lavoro dopo lo scoppio della pandemia. La disoccupazione, poi, colpisce maggiormente le donne: il tasso di impiego generale, nel loro caso, è calato del 2,2%, percentuale più alta rispetto all’1,6% della popolazione maschile. La crisi lavorativa segue anche dinamiche geografiche, gravando principalmente nel Sud Italia. Tuttavia, anche città come Milano, nell’immaginario comune locomotiva del lavoro del Paese, hanno ricevuto un contraccolpo pesante: rispetto al 2019, secondo i dati della Cisl, nel capoluogo lombardo ci sono 20 mila disoccupati in più. Nell’intera regione, durante il primo lockdown, sono sparite 5 mila imprese attive.
Una crisi trasversale
Seppur con numeri diversi, la disoccupazione avanza e miete vittime in ogni categoria. L’associazione Atdal, che si occupa prevalentemente di sostegno ai lavoratori che hanno superato i 40 anni, segnala «un incremento delle richieste di aiuto». Allo sportello gratuito per il lavoro dell’associazione si rivolgono persone di ogni età e categoria occupazionale, «perché questa crisi – afferma il presidente Walter Deitinger – sta facendo emergere tutte le contraddizioni del mercato del lavoro italiano: la mancanza di tutele nei confronti dei giovani, dall’oggi al domani lasciati a casa in virtù di un principio di elasticità che, in realtà, è completamente assente per i lavoratori over 40, ritenuti non appetibili dal mercato se perdono il lavoro in età avanzata. È un cortocircuito in cui, dopo questa crisi, i prepensionamenti, la mobilità e i vari ammortizzatori rischiano di non bastare».
Daniele Donati, 49 anni, è il titolare del Papero bar di Ancona. Vive a Osimo, nella provincia, e da dieci anni si sveglia ogni mattina all’alba per andare a preparare le colazioni per i suoi clienti. «È una normalissima attività a gestione famigliare, con cui riuscivo a sostenere una moglie e due bambini piccoli. È la sola entrata che abbiamo, ma ci bastava per avere una vita dignitosa». I problemi sono iniziati con il lockdown di marzo. I finanziamenti per l’acquisto della casa, venendo meno i guadagni del bar, sono diventati macigni, «e quando ho visto arrivare i 600 euro dell’Inps, mi è venuto da ridere: la prima tranche l’ho data a mia sorella, che lavora nel bar insieme a me, con gli altri non riuscivo nemmeno a pagare un quinto delle tasse».
«Sto pensando di chiudere l’attività»
Donati ha calcolato che, da marzo a giugno 2020, c’è stato un mancato guadagno lordo di 50 mila euro. «Mi sono arrivati circa 3 mila euro di ristori dalle casse pubbliche. La cosa ridicola e tragica è che, quasi in contemporanea al bonifico dello Stato, ho dovuto versare 4 mila euro di tasse da pagare al commercialista». E se, con l’estate, la situazione sembrava poter migliorare, «a ottobre è arrivata la seconda mazzata». Di questi tempi, quando le giornate vanno a gonfie vele per l’attività, Donati riesce a emettere «massimo 200 euro di scontrini». Da quella cifra, però, deve sottrarre le tasse, lo stipendio per sua sorella, le spese per l’acquisto dei prodotti e per la gestione del bar. «Per vivere resta poco e nulla». Il proprietario del locale ha ridotto il canone di affitto mensile, da 2.000 a 1.500 euro, «ma sono indietro di due mensilità, non ce la faccio», racconta rammaricato.
«Adesso sto pensando di chiudere il bar: non è che posso continuare ad aumentare i debiti se non entrano i soldi. Prima davo lavoro, a chiamata, a due persone. Ho dovuto lasciare a casa anche loro». La cosa che più lo spaventa per il futuro prossimo sono le tasse da pagare, «1.500 euro di contributi Inps trimestrali per i dipendenti famigliari. Contributi che ci garantiranno, a 70 anni, una pensione da fame». Donati sperava che, in questa situazione, il governo cancellasse le tasse previste per l’attività come la sua, «invece ne ha solo sospeso il pagamento. Io non so se ce la farò mai a ripagarle, ho già i debiti con la banca e il proprietario del locale». Donati ci tiene a precisare che il Papero bar, prima dell’emergenza Covid, era un’attività che si manteneva sempre in attivo. «Quando finirà la pandemia – conclude – ci sarà la pandemia economica e della disoccupazione. Rinviare il pagamento delle tasse non è la soluzione: bisogna cancellarle».
Prevedesi impennata del microcredito
Romano Guerinoni, direttore generale di Fondazione Welfare Ambrosiano, è preoccupato per cosa succederà a marzo 2021. «La nostra associazione è come il reparto di un ospedale. Adesso, la maggior parte dell’emergenza si abbatte sui pronto soccorso, che in questa metafora sono le Caritas e le onlus che danno pacchi alimentari. Poi, i pazienti cominciano a passare nei reparti, dove ci siamo noi con i nostri interventi di microcredito: l’ondata di disoccupati, di persone che non ce la fanno a mantenere in piedi la propria attività o, semplicemente, a pagare l’affitto della casa e il mutuo, la vedremo quando scadrà il blocco dei licenziamenti». La fondazione diretta da Guerinoni eroga finanziamenti a tasso zero, aiutando chi ha bisogno di una mano economica per risollevarsi e ripartire.
«Qualche effetto della crisi già lo vediamo – aggiunge – tante start up e imprese che abbiamo sostenuto con il microcredito ci stanno chiedendo di posticipare la riscossione delle rate». Guerinoni descrive la tipologia di interventi tipici della sua associazione, prevedendo che «le richieste schizzeranno a marzo 2021». Si tratta prevalentemente di sostegno all’affitto, contributi per la scuola e l’università, ortodonzia per i bambini, «ma più del 50% delle richieste riguarda le spese per la casa. Ecco, il campanello di allarme di un’emergenza per noi consiste quando una persona ci chiede un aiuto per pagare le spese condominiali: è la prima cosa che, una famiglia in difficoltà, rinuncia a pagare. Le bollette di luce e gas, servizi essenziali per la vita quotidiana, sono invece le ultime spese a resistere».
Dalle start up ai manager: nessuno è escluso
Fondazione Welfare Ambrosiano, sostenuta anche da Cariplo, ravvisa le maggiori criticità in chi aveva avviato la propria attività qualche mese prima della pandemia. «Chi ha avviato una start up nel 2019 ci sta chiedendo di allungare i tempi di restituzione del debito. Abbiamo sostenuto una birreria artigianale di ragazzi che hanno investito moltissimo per il lancio dell’attività. Con l’arrivo del Coronavirus, tutti i piani sono saltati: non ce l’hanno fatta più a pagare l’affitto e hanno dovuto vendere i macchinari per fabbricare la birra. Si è spenta un’occasione di lavoro per un gruppo di giovani volenterosi e capaci».
La cosa più tragica, per Guerinoni, è l’effetto delle scelte fatte a causa di questa crisi sul futuro delle persone: «Il calo dei redditi in un nucleo famigliare lo scarichi nel tempo. Non iscrivere più il figlio all’università, rinunciare all’apparecchio per i denti, sono tutti segnali che stiamo notando. Sono rinunce che oggi non ci sembrano importantissime, ma che peseranno sul resto della vita di queste persone, sul loro futuro».
Infine, c’è anche una categoria di lavoratori che, nella pensée comune, sono considerati privilegiati. Si tratta dei manager, dei dirigenti d’azienda, «sui quali pesa lo stereotipo di essere super ricchi. Non è così». A parlare è Chiara Bonomi, presidente dell’associazione Unbreakfast, che si occupa di sostenere, attraverso il networking, l’occupabilità dei dirigenti rimasti senza lavoro.
«La pandemia ha agito sulla nostra categoria come una sorta di congelatore: i licenziamenti sono bloccati, ma c’è gente che sa già che perderà il lavoro a maggio. Chi, invece, nel freezer ci è finito senza lavoro, non sta riuscendo a trovare un impiego perché il mercato è completamente fermo». Bonomi rileva che il preconcetto sull’età gravi non soltanto sui giovani, «ma anche sui troppo adulti, considerati dalle aziende costosi e nella fase calante della produttività».
I contraccolpi psicologici
Con la sua associazione, fondata 14 anni fa, Bonomi si occupa anche di abbattere gli stereotipi dei manager: «Conosciamo anche noi la povertà. Pochi sanno che il minimo contrattuale di un dirigente corrisponde a un quadro medio. E si può essere licenziati anche con una certa facilità. Ecco, la gente pensa che tutti i manager guadagnino come gli amministratori delegati delle grandi società, per loro fortuna milionari. Invece, in media, lo stipendio annuo va dai 45 ai 60 mila euro». Un buono stipendio certo, «ma non abbastanza per comprarsi uno yacht o fare spese folli», chiosa Bonomi.
«Molti dirigenti sono costretti a spostarsi, per lavoro, in città con uno stile di vita costoso. Non tutti riescono a comprarsi casa e, se lo fanno, hanno sulle spalle mutui onerosi». Bonomi sostiene che ci vogliono una quindicina d’anni prima di diventare dirigente, e il passaggio avviene quando, spesso, si ha una famiglia con bambini piccoli a carico.
«Nel momento in cui un manager perde il lavoro, si trova con un costo di vita mediamente alto. Se si lavora parecchie ore al giorno, è indispensabile avere una tata per i bambini. Aggiungici il mutuo, uno stile di vita non certo economico, dovuto al fatto che è indispensabile per questo lavoro fare networking, e ciò comporta cene a ristorante, vestiti eleganti, ed ecco che lo stipendio di un dirigente si consuma e diventa ricchezza per altri». Bonomi racconta che vivere un momento di crisi come questo, per chi è stato abituato a sentirsi appagato da ruoli di responsabilità, ha dei contraccolpi psicologici sottovalutati.
«Sono tanti i miei colleghi che stanno cadendo in un profondo stato di depressione. Qualcuno è riuscito ad accettare di fare dei lavori di ripiego, un socio dell’associazione ha iniziato a fare il rider per Glovo, altri danno ripetizioni agli studenti. Ma chi non riesce a reinventarsi e passa le giornate davanti al computer a inviare curriculum inutili, rischia di pagare con la salute psicofisica le conseguenze economiche del Coronavirus».