Al via il Consiglio europeo, è tregua sullo stato di diritto. Ma il compromesso di Merkel sul Recovery Fund rischia di saltare
Oggi, giovedì 10 dicembre, inizia a Bruxelles l’ultimo Consiglio europeo dell’anno, o almeno così dovrebbe essere. L’unica certezza infatti è l’assenza di certezze, a partire dalla durata del vertice stesso. L’agenda prevede due mezze giornate di lavori, ma i dossier da discutere sono più numerosi e complicati rispetto ai punti del programma. Tra Brexit, Mediterraneo orientale, Recovery Fund, cambiamento climatico e pandemia da Covid-19 i leader si preparano ad andare avanti a oltranza anche in questo caso, senza escludere l’eventuale necessità di un altro Consiglio straordinario prima del 31 dicembre.
La tregua sullo stato di diritto
La buona notizia di ieri è che Polonia e Ungheria hanno trovato un compromesso con la presidenza tedesca e ritirato il veto al bilancio pluriennale (Mff) del 2021-2027 e al Next Generation EU (Ngeu), e quindi alle prospettive di solidarietà e rilancio dell’Unione europea concordate nel vertice di luglio. Budapest e Varsavia sono contrarie al meccanismo che vincola l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto, e non sembravano disposte a cedere a quello che vedono come uno strumento per intromettersi nella loro politica interna troppo spesso ai limiti (per non dire oltre) dei confini della democrazia dei Paesi della vecchia Europa occidentale.
Il compromesso garantisce che le sanzioni non potranno essere attivate prima del parere favorevole della Corte di giustizia europea, un percorso che rende tutto più macchinoso, e risolvibile prima di passare alle sanzioni effettive. I primi a discutere l’intesa sono stati i rappresentanti permanenti (ambasciatori) dei Paesi Ue riuniti nel Coreper, che ieri pomeriggio hanno esaminato il testo condiviso dalla presidenza tedesca rimandando all’ora di pranzo di oggi la discussione finale. Prima di esprimersi ufficialmente gli ambasciatori hanno bisogno di consultarsi con i governi, ma in generale il giudizio è positivo, specialmente tra i rappresentanti dell’Europa meridionale e della Francia (principali beneficiari).
L’accordo è il risultato della capacità di Angela Merkel di offrire alle parti in causa un’interpretazione soddisfacente a cantare vittoria. D’altronde, è grazie a questa abilità che la Cancelliera è alla guida della Germania da 15 anni con governi di grande coalizione tra partiti di orientamento opposto. Infatti, dal punto di vista formale il testo non modifica il regolamento del meccanismo sullo stato di diritto, ma propone un’interpretazione diversa sulla sua applicazione.
Il diavolo è nei dettagli
Secondo la bozza fatta circolare ieri, il meccanismo sarà utilizzabile solo per tutelare i fondi del bilancio comunitario, non per le violazioni dello stato di diritto in quanto tale, contro le quali c’è già la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato Ue (del tutto inefficace a causa dei veti incrociati). Questo era già previsto dalle regole concordate, ma Viktor Orban e Mateusz Morawiecki hanno raccontato a ungheresi e polacchi che l’accordo li avrebbe costretti a piegarsi a richieste non correlate al bilancio europeo, come la legalizzazione dei matrimoni gay e l’accettazione di immigrati. Adesso potranno dire all’elettorato di avere impedito questa “ingerenza” in politica interna.
Il compromesso prevede che la Commissione europea si impegni a non avviare alcuna procedura sanzionatoria fino a quando la Corte di giustizia europea non si sarà pronunciata con una sentenza sulla legittimità dell’intera operazione. Per procedere, la Commissione dovrà presenterà delle linee guida molto precise in cui chiarire come intende individuare e perseguire le violazioni, tenendo in debito conto tutte le osservazioni del Paese accusato. La sanzione proposta dovrà essere proporzionata, e prima di aprire una procedura va comunque stabilito un dialogo con lo Stato interessato e dargli la possibilità di rimediare.
Infine, cosa non meno importante, il meccanismo potrà essere applicato esclusivamente a partire dal nuovo bilancio pluriennale da gennaio 2021. Non vale dunque per quello precedente, un particolare che protegge Ungheria e Polonia dalla contestazione per le violazioni del passato e del presente. In questo modo, tra esenzione dei bilanci precedenti e le tempistiche necessarie a elevare le sanzioni per quello attuale (più di un anno), Budapest e Varsavia non avranno problemi prima del 2022 e tutto il tempo necessario a sistemare le cose in anticipo. Ciò può far sperare che i governi illiberali di Orban e Morawiecki si rimettano in riga, almeno in parte, ma è tutto da vedere.
Al momento non ci sono state particolari obiezioni, secondo le fonti vicine al dossier c’è moderato ottimismo sul buon esito del negoziato. Il progetto di accordo dovrà ora essere firmato dagli altri Stati membri e accettato dal Parlamento europeo. Le falle presenti in questa nuova interpretazione potrebbero non accontentare gli europarlamentari più inflessibili.
Leggi anche:
- Fumata bianca al Consiglio europeo: trovato l’accordo tra gli Stati membri sul Recovery Fund
- Recovery Fund, le politiche attive passano anche dagli asili nido. Quanto costa migliorarli e quanto tempo ci vorrebbe
- Recovery Fund, Angela Merkel ha vinto ancora. Ma Ungheria e Polonia non hanno perso (anzi)
- Schiarita in Ue sul Recovery Fund. La Polonia annuncia: «Trovato un compromesso con Ungheria e Germania»
- Recovery Fund, in Polonia il veto al bilancio Ue non piace a tutti. Regioni sul piede di guerra, e la popolazione è spaccata
- Recovery Fund, il vertice dei leader europei non sblocca lo stallo. Resta il veto di Ungheria e Polonia
- Orban rivendica il veto sul Recovery Fund: «L’Ue ricatta chi si oppone ai migranti». E si aggiunge la Slovenia
- Recovery Fund, il veto orientale mette a nudo le debolezze dell’architettura europea