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Quando l’allenatore del Lanerossi Vicenza inventò Paolo Rossi: «Gli disse solo: vieni incontro, la dai e vai. E lui sorrise» – L’intervista

10 Dicembre 2020 - 20:39 Davide Gangale
Il compagno di squadra di Pablito, Giorgio Carrera, racconta a Open come l’allenatore Gibbì Fabbri, nel 1976, decise di schierarlo nel ruolo di centravanti. Cambiando per sempre la storia del calcio

«Quando una persona muore, una cosa che odio è che tutti salgono sul pulpito a dire: “Era fantastico, meraviglioso, eccezionale, incredibile”. Ma io ho 65 anni, ho visto il mondo come funziona, tutto questo incenso a me dà un fastidio boia». Giorgio Carrera, classe 1955, nel 1976 venne acquistato dal Lanerossi Vicenza. Giocava nel ruolo di libero. Con quella squadra vinse il campionato di Serie B, ottenne la promozione in Serie A e lo storico secondo posto alle spalle della Juventus. In quella squadra, con lui, giocava Paolo Rossi, inventato centravanti una sera a Cagliari dal maestro Gibì Fabbri. Ecco il suo racconto per Open, durante il quale non vuole che gli si dia del lei.


Giorgio Carrera con la maglia del Lanerossi Vicenza

Come hai saputo della morte di Paolo Rossi?

«È dalle 6 e un quarto di stamattina che parlo. Mi ha svegliato il nostro compagno di squadra Valeriano Prestanti, era il nostro stopper. E mi ha dato la notizia. Prima di lui, qualche giorno fa, se n’è andato il nostro portiere, Ernesto Galli, e poi anche Mario Maraschi, un altro giocatore fantastico del Lanerossi Vicenza. Che anno tremendo questo 2020, non si è fatto mancare nulla».

Quando hai conosciuto Rossi per la prima volta?

«La storia fantastica del nostro Vicenza nasce nel 1976, a Rovereto. Rossi era della Juventus, ma arrivava dal Como. Era un’ala destra. Ma una sera a Cagliari, in Coppa Italia, il maestro dei maestri Gibì Fabbri, il nostro allenatore, l’ha inventato centravanti».

Che ricordi hai di quella sera?

«La favola di Rossi inizia in quel momento. Fabbri ci legge la formazione, arriva il numero 9 e dice: “Rossi centravanti”. Tutti quanti ci siamo guardati con un sorrisino. Come a dire: ma il mister ha bevuto? Non lo aveva mai provato in quella posizione. Mai nemmeno in allenamento, nemmeno in un’amichevole. Zero. Lo ha inventato quella sera a Cagliari».

E Rossi come reagì?

«Anche lui, se lo guardavi in faccia quella sera nello spogliatoio… anche lui sorrideva. Sorrideva sempre. L’allenatore gli ha detto solo questo: “Paolo, allora: vieni incontro… la dai… e vai”. Ti puoi immaginare. Paolo rispose: “Va bene”. E questo “vieni incontro, la dai e vai”, poi è diventato una musica celestiale per quella squadra».

Come finì la partita?

«Vincemmo uno a zero. Gol di chi? Di Paolo Rossi».

Qual era la sua dote migliore?

«Rossi era un’ala destra, aveva questo scatto che ti massacrava e poi crossava. Per cui noi dovevamo portargli il pallone là, da tutte le parti, servirlo bene… poi però cominciò a buttarla dentro. Per due anni fu capocannoniere in Serie B. Da che eravamo candidati alla retrocessione, siamo arrivati primi. E poi, per la prima volta nella storia, arrivammo secondi in Serie A dietro la Juventus: una provinciale neopromossa non ci era mai riuscita prima. Andammo a Torino e ci giocammo lo scudetto. Nel 1977-78 Rossi fece 24 gol e vinse il titolo di capocannoniere».

Se dovessi descrivere Rossi a un giovane che non lo ha mai visto giocare, cosa diresti?

«Rossi era come tutti noi, io avevo solo un anno più di lui. È arrivato a Vicenza sereno col suo 112, un macchinino. Era un ragazzo tranquillo come tutti noi. Poi, quando è diventato Paolo Rossi, è sempre stato lui, non si è mai montato la testa. Bisogna ricordare a tutti che il calcio non è un lavoro, è un gioco. Io lavoravo quando andavo in fabbrica, dai 14 ai 18 anni. Poi mi sono divertito da morire. E Paolo era un ragazzo che amava giocare a calcio».

Tutto qui?

«Era bravo e ha fatto una carriera meravigliosa, fantastica. Un ragazzo come tutti, bravo a giocare a calcio, che poi ha fatto la storia. Punto e stop. Il complimento più bello che si possa fare a qualcuno, io credo, è dire che quel qualcuno è sempre stato se stesso, senza mai montarsi la testa».

Eppure il suo successo è stato enorme…

«Sì. Hai visto Maradona, che non poteva nemmeno girare per strada? Chiaro che lui, dopo aver vinto i Mondiali nel 1982, diventò una star. Non come Maradona a Napoli, però… però non si è mai negato, è sempre stato al gioco, felicissimo dell’affetto della gente. Il merito del miracolo Paolo Rossi è tutto di Gibì Fabbri, il maestro dei maestri di questo gioco, che nella sua essenza è tecnica, estro e fantasia. Come ripeteva sempre il nostro mister».

E voi, i suoi compagni di squadra, non siete mai stati gelosi della popolarità di Rossi?

«Mai. Ricordiamoci che Paolo aveva intorno a sé degli orchestrali fantastici, anche in Nazionale. Noi non siamo mai stati gelosi perché tra di noi c’è sempre stato un grandissimo rispetto. E una gioia di stare insieme e di sentirci che dura ancora oggi. I miei compagni di squadra sanno che possono chiamarmi in qualsiasi momento e io rispondo».

Che ricordo ha lasciato in città il Real Vicenza?

«Quella squadra ha lasciato un segno. Qui a Vicenza, 13 anni fa quando mi ci sono trasferito, delle signore meravigliose 80enni che avevo conosciuto, tutte le volte che mi incontravano in centro mi fermavano: “Giorgio!”. E mi recitavano la formazione del ’77 a memoria! Vuol dire che hai lasciato qualcosa, qualcosa che sarà per sempre».

Nessun grillo per la testa?

«Nessuno di noi era montato, di sicuro. Anche perché a quei tempi, se uno fosse stato così… c’era il coraggio di prenderlo e di metterlo da parte, di mandarlo fuori dalle balle. Ognuno aveva il suo carattere e la sua educazione, ma c’era molto rispetto. Anche quando si trattava di firmare i contratti, noi non avevamo i procuratori. O ti arrangiavi tu, o ti arrangiavi tu».

E come funzionava?

«Ti racconto un aneddoto. Il nostro capitano era Renato Faloppa. Quando vincemmo il campionato in Serie B e arrivammo secondi in Serie A, lo mandammo a ridiscutere i contratti di tutti con il presidente. Dicendogli: “Renato, allora, abbiamo vinto il campionato in B, secondi in Serie A… vai dal presidente e digli: vogliamo questa cifra. Questa volta 30. E non scendere di un centesimo”. E lui: sì, vado dentro, gli sparo la cifra e dev’essere quella. Ci mettiamo tutti fuori. Lui entra, passano 60 secondi… appena lo vediamo uscire, tutti saltiamo in piedi come se avesse fatto gol. E lui, quasi sorridendo, ci fa: “Anche stavolta m’ha ciava’ “. Anche stavolta mi ha fregato. Perché il presidente lo aveva anticipato. Appena seduto, gli aveva detto: “Renato, vanno bene 15?”. E lui: “Va ben”».

E oggi non ti piacerebbe allenare una squadra?

«No, il mondo del calcio non è più il mio mondo. Stavo scrivendo un libro, si sarebbe intitolato Storia di un uomo libero. Ma l’ho bloccato per un motivo molto personale che non ho mai detto a nessuno e non dirò nemmeno a te. Persone come me, nel mondo del calcio danno fastidio. Quando un responsabile di un settore giovanile viene a dirmi chi deve giocare o chi devo sostituire, io non ci sto. Quel giorno gli è andata bene, perché mi sono limitato a cacciarlo dallo spogliatoio. E da lì tutti a dire: “Giorgio è bravo, però, che caratteraccio…”».

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