Islam politico, divisioni e il coraggio di sfidare il potere. L’eredità della Primavera araba 10 anni dopo
Fatima al-Qaws indossa un niqab nero. Seduta a terra stringe un ragazzo di 18 anni in un abbraccio di sofferenza e compassione, un intreccio di corpi che ricorda l’intensità della Pietà di Michelangelo. È il 15 ottobre del 2011, siamo a Sana’a, nella capitale dello Yemen e il fotografo Samuel Aranda immortala quella che per il World Press Photo sarà la foto del coraggio di «osare scendere per strada per protestare contro il regime e mettere a rischio tutto».
Un anno prima, il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi si era immolato nelle strade della Tunisia, dandosi fuoco in protesta contro la miseria in cui vivevano lui e la sua famiglia. Una miccia, quella accesa sul suo corpo, che si spargerà per tutto il Medio Oriente dando il via a un’ondata di proteste che furono presto ribattezzate «Primavera araba». Il primo a cadere fu proprio il presidente tunisino Ben Ali, poi venne poi il turno del presidente egiziano, Mubarak, al potere dagli anni ‘80. Dalla Siria allo Yemen, quegli eventi hanno aperto una decade di trasformazioni politiche e socio-economiche.
Nell’interconnessione di una serie di eventi e proteste che hanno avuto un carattere eterogeneo in tutta la Regione, con esiti e conseguenze mai uguali, oggi il Medio Oriente, e in particolare il mondo arabo, è un mondo «diverso, anche se in superficie non sembra», spiega a Open Matteo Colombo, Pan-European Junior Fellow dell’ ECFR e Associate Research Fellow ISPI. «Sono cambiamenti che si può far fatica a vedere perché si trovano sotto la superficie».
Nel 2015 la giuria del Nobel per la pace consegnò il premio al Quartetto del dialogo nazionale tunisino. Un riconoscimento agli sforzi di un Paese indicato, spesso, come l’unico che sia riuscito ad avere una transizione democratica dopo le proteste iniziate del 2010. «Sicuramente, proprio guardando al caso tunisino, una delle grandi eredità della primavera araba è l’ascesa dell’Islam politico. Partiti una volta estromessi sono entrati a pieno titolo nell’arena politica». È il caso del partito islamista Ennahda che con 54 deputati detiene la maggioranza in parlamento.
A farne la spesa di questa ascesa furono però i Fratelli musulmani, il gruppo islamista egiziano che, dopo la caduta di Mubarak, salì al potere con Mohamed Morsi, per poi essere deposti con il colpo di Stato del 2013 appoggiato dagli Stati Uniti. Segnando così l’ascesa del generale Abdel Fattah al-Sisi. «Quello a cui assistiamo adesso – spiega Colombo – è uno schema nel quale i Paesi del golfo sono più propensi a mantenere, insieme all’Egitto, uno status quo mentre il Qatar e la Turchia cecano di sovvertirlo promuovendo la partecipazione politica di partiti islamisti».
Donne, giovani, e tecnologia. Quei giorni furono segnati da uno sprigionamento di rivendicazioni socio economiche e politiche che «anche se non hanno portato ancora cambiamenti duraturi hanno piantato il seme di rivendicazioni e lotte che mai si erano verificate», spiega Colombo. Ma negli ultimi 10 anni si sono rafforzati anche segni di continuità con il passato con l’insorgenza di regime sempre più autoritari. «Dall’Egitto al Bahrain, alla Siria, allo Yemen, i capi di Stato hanno fatto di tutto per soffocare le proteste, non importa a quale costo», dice invece Simon Mabon, professore e direttore del dipartimento di Relazioni Internazionali dell’università di Lancaster.
«La risposta a quelle proteste è stata – aggiunge Mabon – un ricorso in questi ultimi dieci anni a forme di settarismo politico che i regimi hanno usato per coltivare divisioni nei movimenti che hanno osato sfidarli. E ha anche portato a profonde divisioni tra ricchi e poveri, tra attori nazionali e no, a tra chi sopporta i governi e i loro opponenti». Rimane tuttavia un’eredità di speranza per una Primavera araba che non è mai finita, come testimoniano le proteste dello scorso anno dal Libano all’Algeria. I «governi autoritari possono essere sfidati e il cambiamento – non importa quanto fugace – possa essere raggiunto» , dice Mabon. «È questo che le giovani generazioni hanno imparato dagli eventi di dieci anni fa».
Foto copertina: EPA/FELIPE TRUEBA
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