Danni collaterali – Lo stop ai progetti di integrazione basati sullo sport: «Skype non basta. Si vergognano di mostrarci le loro famiglie e non tornano più»
Il rapporto dell’uomo con il luogo in cui vive è una questione di spazi. Spazi del centro, spazi riqualificati, spazi di incontro, spazi abbandonati, spazi autogestiti, spazi verdi, spazi di periferia. Negli spazi accadono cose che li trasformano, costantemente, ma è anche grazie agli spazi che quelle cose possono succedere. Lo sport è uno dei motori più incisivi per il cambiamento dei luoghi, e ciò è possibile perché prima di tutto interviene sul tessuto sociale. Una partita di calcio, un canestro da basket, una rete da pallavolo sono occasioni: per aggregarsi e integrarsi, per scambiarsi idee e creare legami.
Il Coronavirus ha spezzato tutto questo. E a risentirne sono stati proprio quegli spazi vissuti dalle comunità più fragili. Non è la stessa cosa vedersi annullare il match di calcetto per un bambino che può tornare a casa a giocare alla playstation e per un suo coetaneo che è stato, invece, costretto a crescere troppo in fretta, in un contesto dove un pallone rammendato è la cosa più preziosa che si ha. In alcuni spazi, l’unica alternativa allo sport è la criminalità, esplicita o sottintesa. Senza sport, l’integrazione è un concetto troppo sfumato per diventare reale.
«Ciò che è successo nelle periferie, con la pandemia, è tragico: ci sono attività che non si sono mai fermate, e sono le attività della microcriminalità, dello spaccio, della strada. Attività dalle quali riuscivamo a tenere lontani i ragazzi grazie allo sport, agli oratori», spiega Gian Marco Duina, 26enne che, nonostante l’età, ha una corposa esperienza nel campo del terzo settore e dell’educazione attraverso lo sport. «Quando lavori come educatore con dei ragazzi particolarmente fragile, ti rendi conto di quanto sia fondamentale mantenere con loro un contatto fisico, una presenza costante».
Torneo in memoria di Dodò Gabrieli, vittima innocente di mafia
Lo sport si è fermato, la microcriminalità no
La pandemia, però, ha reso inattuabili i progetti della onlus della quale è vicepresidente, Altropallone, «e nelle periferie le uniche attività rimaste operative sono state quelle della malavita. Prima i ragazzi andavano a scuola la mattina, il pomeriggio giocavano con noi e la sera, ad esempio, seguivano i cineforum o eventi delle varie associazioni. C’era un’organizzazione della giornata in grado di tenere gli adolescenti lontani dai problemi domestici e dai contesti violenti». Con il lockdown di marzo, racconta Duina, i fenomeni negativi hanno preso il sopravvento nelle periferie milanesi, «e quando a settembre abbiamo cercato di rilanciare le attività – dice con rammarico – molti ragazzi che seguivamo non sono più tornati: li abbiamo persi a causa del Coronavirus».
Il Covid ha interrotto i percorsi educativi di molti adolescenti, «danneggiando più le periferie che i centri delle città». Duina e gli altri volontari hanno provato a restare in contatto con i giovani seguiti attraverso i social, «ma una parte dei ragazzi non aveva gli strumenti digitali a disposizione, altri non si sentivano al loro agio a parlare con noi educatori mentre si trovavano nelle proprie case, magari in contesti complicati e violenti dove non si possono mostrare le debolezze». Duina, che fa la spola tra Milano e l’Africa, dove ha fondato scuole calcio in Zambia, Kenya e Tanzania, vede il calcio non come pratica sportiva fine a se stessa, «ma strumento per parlare di altro».
Partite di basket organizzate da Altropallone nella periferia Sud di Milano con la squadra professionistica Urania
Lo sport, dice, «ha la potenzialità di superare ogni divergenza linguistica, con una capacità enorme di comprensione. Grazie al calcio, riusciamo a sfondare il muro comunicativo con chi, di fatto, vive ghettizzato nelle periferie: cerchiamo di lottare contro l’abbandono scolastico, l’avvicinamento alla criminalità. E ci stavamo riuscendo nella periferia di Milano Sud, specialmente a Gratosoglio, prima che la pandemia interrompesse tutto». Quella di Altropallone è un’esperienza educativa informale che interviene quando i canali ortodossi della formazione personale non riescono ad attecchire.
«Il calcio – conclude Duina – è uno strumento duttile: serve a riqualificare quartieri, a contrastare la mafia, a favorire l’integrazione». Lui e la sua associazione difendono l’accessibilità di questo sport: «Il calcio deve essere accessibile, aggettivo che si declina nell’accessibilità economica, burocratica e di genere». Il 26enne ha collaborato alla creazione di un’esperienza unica del suo genere in Italia, una squadra di calcio iscritta alla Figc composta prevalentemente da rifugiati e richiedenti asilo: il St. Ambroeus di Milano. Tra i fondatori di questo modello di integrazione attraverso lo sport c’è Davide Salvadori, 28 anni, dirigente sportivo ed esperto di comunicazione.
Torneo di calcio misto organizzato da Altropallone durante la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne
La parabola del St. Ambroeus
«Negli anni in cui si parlava di crisi migratoria, la stazione Centrale di Milano era uno snodo per le persone che, dall’Africa, cercavano di raggiungere il Nord Europa, ci siamo sforzati di immaginare un modo per permettere, a chi restava in Italia, di integrarsi con la società», ricorda Salvadori. I Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, pullulavano nelle grandi città: venivano allestiti in scuole e palestre dismesse, dove venivano stipate centinaia di persone senza fornire loro i mezzi per integrarsi con il contesto circostante. «Era il 2015: io e altri amici siamo andati fuori da uno di questi centri, a Milano Nord, per invitare i migranti a delle serate musicali. Ci siamo scontrati con la difficoltà di comprensione, la nostra idea non convinceva e non coinvolgeva. Poi, comunicando a gesti, citando nomi di giocatori famosi, è saltata fuori l’idea di organizzare partite di pallone.
La partecipazione è stata notevole fin da subito: «Il calcio è una lingua internazionale che parlano tutti. Così siamo riusciti ad abbattere il muro iniziale della comunicazione». Nel 2018, è stata data organicità a quell’esperienza sportiva: è nato il St. Ambroeus, una squadra di calcio per richiedenti asilo. «Il nome è un tributo alla città meneghina. In quanto milanese, vecchi o nuovi, abbiamo scelto come simbolo l’umile piccione, non draghi, leoni o animali possenti, ma il volatile urbano: simbolo della vera fauna cittadina». L’esordio nel campionato di terza categoria della Figc è avvenuto a settembre 2018. Nei due anni, il St. Ambroeus si è sempre posizionato a metà classifica.
Video copertina della pagina Facebook del St. Ambroeus
«Abbiamo incontrato molte difficoltà – chiarisce Salvadori -. La prima è stata quella dei tesseramenti: per le regole della Figc serve il permesso di soggiorno, una residenza e la carta d’identità. Per alcuni giocatori l’iter burocratico è stato un ostacolo insuperabile. Poi c’è il problema delle leggi: dalla Turco-Napolitano in poi, la stabilità dei migranti in Italia è stata compromessa. il St. Ambroeus ha dovuto fare i conti con la clandestinità perché, seppur in mancanza di documenti, non abbiamo voluto interrompere il percorso di integrazione iniziato da alcune persone all’interno dell’associazione».
Salvadori si rivolge ai legislatori: «Stai condannando delle persone ad avere una vita illegale, a non poter affittare un appartamento, a lavorare in nero. Abbiamo scelto da sempre di non essere indifferenti, e ogni volta che ci viene chiesto, prendiamo posizione anche dal punto di vista politico». Dopo i primi due anni in Figc, sostentandosi con il crowdfunding e attività di autofinanziamento, l’associazione è riuscita a prendere in gestione un centro sportivo nella zona di viale Monza.
Video di invito al crowdfunding per sostenere il St. Ambroeus
Purtroppo, il Coronavirus ha interrotto bruscamente l’attività del St. Ambroeus e del centro sportivo, aperto a settembre 2020. «Ripartiremo più forti. Intanto il seme è stato posto: grazie alla squadra composta principalmente da richiedenti asilo, un sacco di italiani hanno potuto partecipare al progetto e c’è stata una sorta di accoglienza all’inverso. Inoltre, a militare nel St. Ambroeus, oggi sono per metà ragazzi italiani, e l’altra metà richiedenti asilo di 15 nazionalità diverse».
Salvadori individua l’aspetto migliore di questa iniziativa nella capacità dello sport di riaccendere l’entusiasmo tra chi vive rinchiuso in un centro di accoglienza, «depresso e non stimolato a imparare la lingua perché, tanto, si vive stipati insieme ad altri stranieri che non parlano italiano». Racconta la storia di Alex, oggi capitano del St. Ambroeus, arrivato nel 2015 dal Senegal. «Adesso è irriconoscibile rispetto a quando era arrivato. Ogni volta che lo guardo, mi sembra più milanese di me. Se il St. Ambroeus va avanti è grazie anche alla partecipazione di Alex: gli atleti non sono solo persone che usufruiscono di un’iniziativa, ma sono parte attiva di questa progetto. Lavora nella security e la cosa bella è che ha trovato lavoro tramite un altro compagno di squadra. Ha un contratto regolare di affitto ed è diventato completamente autonomo. Ora – conclude Salvadori – stiamo cercando di capire se si sta per sposare: è un po’ riservato, come ogni milanese che si rispetti, ci ha detto soltanto che si è fidanzato».
“Calci resilienti”
Intervista a Francesco Zema, 37 anni, esperto in Giustizia riparativa e Community work
Calcio giocato, ma anche calcio raccontato. Francesco Zema, 37 anni, lavora nell’hinterland milanese con progetti di inclusione sociale e recupero di minori in messa alla prova. Anche lui, purtroppo, ha ravvisato il duro contraccolpo della pandemia sui differenti percorsi di educazione in atto. Il suo progetto, “Calci: comunità resilienti“, non si è fermato. Zema infatti non si occupa solo di organizzare attività ludico-ricreative in presenza, ma ha messo in piedi occasioni d’incontro, che in questi mesi si sono fatte virtuali, che gravitano intorno a storie di resilienza comunitaria e memoria collettiva imperniate sul gioco del calcio. «Queste narrazioni servono anche a distrarre i soggetti fragili dai contesti famigliari complicati nei quali, a causa dei lockdown, sono stati costretti», spiega. E conclude: «La vita dell’uomo e di una comunità territoriale è periodicamente segnata da fratture o alle volte da piccole e medie catastrofi. Lo sport colma le fratture e costruisce i ponti anche dove sembra che non possano esserci».
«Lo sport per uscire dal guscio»
«Quando sei bambino non conosci la stanchezza. Ti svegli al mattino con una voglia irrefrenabile di correre, giocare, non fermarti mai. Quando sei bambino non hai pensieri». Ci sono bambini, invece, che di pensieri ne hanno parecchi. Sono i ragazzi seguiti da Qubì, la ricetta di Fondazione Cariplo contro la povertà infantile che, grazie ai volontari che li raggiungono nei quartieri più difficili di Milano riescono a praticare uno sport. Dalla Boxe in zona Forze Armate ai corsi di capoeira e arti matziali miste a Villapizzone. Tutte le attività sono gratuite e fanno proprie lo stesso principio di Zema, Salvadori e Duina: veicolare valori, educare, formare i ragazzi attraverso lo sport, un portale insostituibile per accedere nelle realtà più fragili della società.