Come nasce (e resiste) un ospedale anti Covid nel Rojava: «Raso al suolo il 60% dei servizi. Abbiamo ricostruito tutto» – L’intervista
Città sfigurate, edifici distrutti, file e file di tende di rifugiati montate tra fango e macerie. A quasi dieci anni dall’inizio della guerra, le immagini che arrivano dalla Siria sono ancora quelle di un Paese al collasso. Una tragedia umanitaria che si è fatta ancora più dura al Nord-Est, nei territori curdi abbandonati più di un anno fa dalle truppe degli Stati Uniti e dimenticati dall’Europa. Dove potenze regionali e non – come Turchia, Russia e Iran – mettono in pratica i loro giochi di potere. In un contesto così problematico, la pandemia da Coronavirus ha peggiorato ulteriormente le vite di chi qui abita. E in un Paese in cui lo Stato non garantisce i diritti minimi e i servizi essenziali, il ruolo delle organizzazioni umanitarie è diventato sempre più centrale.
A raccontare a Open il contesto in cui le ong cercano di far fronte all’emergenza sanitaria sul territorio è Sara Montinaro, project manager volontaria che da circa un anno vive a Qamishlo e lavora tra la regione del Rojava e le aree del Kurdistan più in generale. Con la sua organizzazione, la Mezzaluna rossa curda, ha costruito un ospedale Covid-19 a Al- Hasaka, una zona in cui è difficile recuperare anche l’acqua potabile. «Abbiamo preso due magazzini completamente abbandonati, li abbiamo ristrutturati e li abbiamo adibiti a ospedale», racconta.
Video credit: Sara Montinaro |Siria
Prima che arrivasse la Covid-19, i volontari della Mezzaluna operavano come pronto soccorso nel contesto bellico. Successivamente l’ong si è attrezzata per l’assistenza nei campi profughi, impegnandosi anche a creare strutture destinate alle cure quotidiane dei cittadini siriani. Nel momento in cui la pandemia è esplosa, i volontari hanno dovuto rimettere insieme i pezzi e reinventarsi ancora una volta per rispondere alla nuova emergenza.
Un sistema sanitario al collasso
«Al momento in Siria siamo davanti a un vero e proprio tracollo della sanità pubblica», racconta a Open Montinaro. «Il 60% dei servizi ospedalieri è stato raso al suolo. Abbiamo dovuto ricostruire tutto». Uno degli obiettivi più difficili da raggiungere è stato quello di creare dei posti di terapia intensiva nel nuovo ospedale. Una missione tutt’altro che facile, dato che il Rojava è sotto embargo e l’equipement medico di cui si ha bisogno viene spesso fermato alla frontiera. La Mezzaluna sta facendo un lavoro enorme per recuperare altri ventilatori per le terapie intensive. Quando è iniziata la crisi, nel Nord-Est si contavano 6 o 7 ventilatori a fronte di 7 milioni di abitanti circa. «Lavorando con altre ong siamo riusciti ad arrivare a 50 postazioni funzionanti. Ma anche altri materiali e strumenti di cui abbiamo bisogno sono difficilmente reperibili».
Una guerra infinita e nessun bene di prima necessità
A inizio dicembre, Montinaro ha pubblicato il libro: Daesh. Viaggio nella banalità del male, edito da Meltemi (Mimesis), per raccontare quanto visto e quanto imparato in mesi e mesi di esperienza sul campo. «Qui la guerra non è mai finita, continuano a esserci attacchi», racconta. Ora in campo c’è da una parte il governo siriano di Assad, dall’altra il Syrian National Army, supportato dalla Turchia (oltre alle forze turche in prima persona che presiedono i territori conquistati). C’è poi Al-Qaeda nella zona di Idlib, nel Nord-Ovest. E nel Nord-Est resistono le Forze Democratiche Siriane che, insieme ad altre tribù arabe locali, combattono per preservare i loro territori.
«In questo contesto la pandemia è solo una parte dell’emergenza, ma fronteggiarla è molto difficile», dice. «In primis perché ci mancano i beni di prima necessità, come il cibo e l’acqua. Dal 6 dicembre la Turchia ha chiuso nuovamente la diga di Allouk, dopo averla occupata lo scorso anno. E Al- Hasaka, città dell’ospedale, rimane spesso senza acqua». Un problema che mette in crisi anche l’approvvigionamento di dispositivi di protezione. In Siria mancano mascherine e igienizzanti, ma, se per le prime ci si sta organizzando, per i secondi è impossibile intervenire senza avere acqua buona a disposizione.
I numeri dalla Covid-19 sono sottostimati
Dopo le chiusure della prima ondata, in Siria c’è stato un momento di riapertura (lenta). Fermare il lavoro in un Paese in grave crisi come questo, significa impedire alle persone di avere – letteralmente – alimenti di cui cibarsi. E così le misure sono state pian piano allentate: ma ciò ha significato, insieme al rientro degli studenti, un’inevitabile ricaduta dei contagi. Nel giro di un mese, tra ottobre e novembre, i casi sono raddoppiati. «Al momento, per quanto ne possiamo sapere, ci sono più di 7 mila casi e quasi 200 decessi», dice Montinaro. «Ma è una cifra estremamente sottostimata: non abbiamo test per verificare quanti positivi ci sono davvero».
La percezione della pandemia
Video credit: Sara Montinaro |Campi profughi in Siria
Sensibilizzare le popolazioni locali non è facile. Nella maggior parte dei territori continuano a esserci bombardamenti e combattimenti, e a far più paura è la minaccia che si può vedere con gli occhi e toccare con mano. «L’escalation del conflitto, con i suoi fumi, i suoi morti e con la sua distruzione, è molto più spaventosa per chi vive qui», dice Montinaro. «Un virus invisibile rischia di essere percepito come innocuo, quando in realtà non lo è. Anche per questo cerchiamo di fare campagna di consapevolezza, tra i cittadini e nelle scuole».
La minaccia dell’Isis (e il ruolo delle donne)
Su tutte le paure c’è quella dell’Isis, il movimento terrorista che ha avuto origine tra Siria e Iraq, e che era stato momentaneamente sconfitto proprio grazie alle milizie curde. «La minaccia di Daesh (termine dispregiativo usato dagli abitanti locali, ndr) non è solo percepita, ma è reale», racconta Sara. «Ci sono stati 30 attentati solo nell’ultimo mese. Attacchi che vanno a colpire le figure civili e politiche che nella società svolgono un ruolo particolarmente attivo, come i capi delle tribù». È ancora presente, spiega, ma con una nuova modalità di azione: non più attacchi suicidi randomici per seminare terrore, ma attentati mirati a distruggere quel che di buono è rimasto.
Come racconta nel libro, Montinaro ha avuto l’opportunità di incontrare diverse donne che hanno avuto a che fare con il sedicente stato islamico. Da una parte le foreign fighters, arruolatesi per combattere, che hanno avuto anche un ruolo di leader. Dall’altra le donne diventate schiave sessuali e vendute nei mercati, nell’ottica di una «teologia dello stupro» intesa come pratica religiosa, creata ad hoc per annichilirle e annientarle. «La violenza sessuale veniva utilizzata da Daesh come arma per distruggere la società per intero», racconta Montinaro. «E il target erano infatti donne ben precise: curde, assire e yazide».
«È importante non smettere di parlarne, non dare per scontato che sia tutto a posto solo perché in Occidente non ci sono più attacchi», insiste. «Perché i combattenti sono ancora qui, le ‘spose del Daesh’ sono ancora qui. Molti di loro sono stati rilasciati dalle Syrian Democratic Forces perché non sono più in grado di tenerli nelle prigioni. E l’Europa deve intervenire, perché molti dei foreign fighters che hanno commesso i crimini più brutali vengono proprio da lì».
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