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Michela Piccione, dal call center degli orrori alla nomina a Cavaliere: «Mi chiamavano infame» – L’intervista

29 Dicembre 2020 - 14:58 Fabio Giuffrida
La storia della donna che a Taranto ha lavorato per due mesi in una piccola stanza, senza finestre e senza potersi nemmeno alzare dalla sedia. E che Mattarella ha deciso di premiare

Era una delle «schiave del call center» di Taranto dove si lavorava in condizioni raccapriccianti. Oggi Michela Piccione, 36 anni, è stata premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il titolo di Cavaliere della Repubblica, per la sua forza, per aver trovato il coraggio di denunciare i suoi datori di lavoro, coinvolgendo altre 3 colleghe (su 35, tutte donne) mettendo fine a un incubo durato, nel suo caso, due mesi. «Il primo mese ho guadagnato 350 euro, il secondo 110 – ci confida – Andavo tutti i giorni al lavoro, facevo 6 ore al dì e venivo pagata una miseria». Ma quello che le ha fatto più male è stato lo sfogo di una collega: «Non ce l’ho fatta più quando ho visto le lacrime di una madre che ci ha detto “Con i 92 euro guadagnati a dicembre cosa dirò ai miei figli? Quali regali di Natale metterò sotto l’albero?”». Così ha denunciato tutto ad Andrea Lumino, segretario generale di Slc Cgil Taranto.

michela piccione
FACEBOOK | Michela Piccione, 36 anni

«Una pausa di 15 minuti ogni 6 ore, facevamo la colletta per la carta igienica»

Quel call center degli orrori, infatti, dopo poco tempo, ha chiuso i battenti. Degli orrori non solo per le paghe da fame: «Era un buco, io lavoravo in una stanza di 2 metri per 2. Eravamo in tutto 35 divisi in 3 stanze di un piccolo appartamento. Senza finestre, o meglio quella che c’era manco si apriva. E poi ci toglievano la dignità: non potevamo alzarci dalla sedia, manco per andare in bagno, altrimenti ci decurtavano quel poco di stipendio che prendevamo. Avevamo solo una pausa di 15 minuti ogni 6 ore. Raccoglievamo persino 1 euro a testa per pagare la carta igienica».

«Mi dicevano: ‘Infame, non ti chiamerà più nessuno a lavorare’»

La paura di denunciare c’era. Qualcuno le faceva credere di essere «un’infame, che avesse sbagliato a raccontare tutto»: «Mi dicevano “non ti chiamerà più nessuno per lavorare”, molti colleghi non mi hanno rivolto la parola, altri mi hanno offesa perché avevano perso il posto di lavoro. Poi, anche grazie al sindacato, sono stati tutti ricollocati. A distanza di tempo, dico con grande convinzione che lo rifarei altre mille volte».

Oggi Michela Piccione ha un lavoro dignitoso

Michela Piccione, dopo aver denunciato i suoi datori di lavoro, è tornata a lavorare in un call center dove vende pacchetti per Tim. Un contratto di collaborazione a progetto: «Mi trovo bene. Certo, se non vendi, non guadagni. Un lavoro subdolo, sei sempre con il pensiero di non farcela. E non puoi nemmeno chiedere un mutuo o un finanziamento per la lavatrice». Accanto a lei c’è il marito, un artigiano, e soprattutto due bambini. Una di 4 anni e mezzo e l’altro di 13 anni.

Foto in copertina: FACEBOOK

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