In Evidenza Cop29Donald TrumpGoverno Meloni
ESTERIDonald TrumpErgastoloInchiesteInghilterraJulian AssangeLiber* Tutt*LondraRegno UnitoUSAWikiLeaks

A Londra si decide sul futuro di Assange, negli Usa rischia l’ergastolo a meno di una grazia da parte di Trump

Il fondatore di WikiLeaks è sotto accusa per spionaggio negli Stati Uniti dove rischia fino a 175 anni di carcere. A Londra è attesa una sentenza per decidere sulla sua estradizione

Che ne sarà di Julian Assange? L’attivista web australiano, fondatore della piattaforma WikiLeaks diventato – per qualche anno almeno – paladino dell’anti-militarismo americano e dei zelanti difensori della «verità-a-tutti-i-costi», il 4 gennaio ha un appuntamento con il destino. Scoprirà se la giustizia britannica darà l’ok all’estradizione negli Stati Uniti dove è accusato di spionaggio e dove rischia di passare il resto dei suoi giorni in carcere. Così vorrebbe una parte dell’opinione pubblica mondiale, che lo reputa se non un pazzo allora un criminale, e così vorrebbe anche l’amministrazione Trump, che pare voglia farne un esempio nonostante l’assist ricevuto nella campagna presidenziale del 2016, quando erano state pubblicate alcune email private di Hillary Clinton.

Assange senza grazie

Se prima di lasciare la Casa Bianca Barack Obama aveva graziato Chelsea Manning – ex analista informatico dell’esercito statunitense e tra gli informatori di WikiLeaks, a cui avrebbe consegnato migliaia di documenti riservati, tornata brevemente in carcere dopo essersi rifiutata di testimoniare nel caso di Assange e poi rilasciata per motivi di salute – salvo colpi di scena Donald Trump non grazierà Assange prima della scadenza della sua presidenza il 21 gennaio. Questo chiedono i sostenitori di Assange – oltre a sua moglie, che si è rivolta al presidente direttamente su Twitter – per cui l’ex inquilino dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, da cui è stato trascinato via dalla polizia britannica, ha semplicemente fatto quello che tanti, troppi giornalisti non hanno avuto il coraggio di fare, ovvero servire la verità «a tutti i costi».

Ed è proprio questo il nocciolo della questione e la base della sua difesa: Assange – sostengono i suoi legali – altro non ha fatto se non diffondere informazioni di interesse pubblico, onorando la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di tutto il mondo – in particolar modo americani – di sapere esattamente cosa combinava l’esercito americano in Iraq, in Afghanistan e nella prigione militare di Guantanamo, dove venivano torturati terroristi e presunti tali. Ma anche come e chi spiavano i funzionari della National Security Agency, come Edward Snowden, altro informatore americano volato a Mosca in compagnia di una dipendente di WikiLeaks, Sarah Harrison, dopo aver rivelato che anche gli alleati europei degli Stati Uniti, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, erano finiti nella ragnatela bianca, rossa e blu.

Dall’altra parte veniva duramente criticata la decisione, non solo di aver diffuso documenti riservati, ma di averli pubblicati integralmente, senza usare tutte le accortezze editoriali che solitamente contraddistinguono il buon lavoro giornalistico e peccando di protagonismo. Così Assange e i suoi collaboratori sono finiti per mettere in pericolo anche le vite di cittadini afgani e iracheni, giornalisti e leader religiosi che fornivano informazioni alle forze americane, esponendo queste persone a gravi rischi.

L’imbarazzo degli alleati

EPA/NEIL HALL | Julian Assange, lascia il tribunale di Southwark a Londra, il 1 maggio del 2019, dopo essere stato condannato a 50 settimane di carcere per aver violato le condizioni della sua cauzione, essendosi rifugiato nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra

A suo sostegno si erano schierati una parte della politica e dei media internazionali, alcuni dei quali – come il Washington Post negli Stati Uniti e Il Guardian nel Regno Unito e Der Spiegel in Germania – avevano deciso di partecipare alla battaglia di Assange pubblicando alcuni tra i documenti riservati che lui gli aveva fornito. Qualcosa è cambiato dopo che nel 2016 WikiLeaks ha deciso di pubblicare una serie di email che alcuni hacker russi avrebbero ottenuto dal consigliere di Hillary Clinton, John Podesta, mettendo in grave imbarazzo Clinton e il partito democratico tutto, con gran giubilo di Trump che ne ha parlato assai durante la campagna presidenziale.

Un gioco da ragazzi, aveva fatto intendere Assange, rivelando che la password utilizzata da Podesta era semplicemente password. La vicenda si è intorbidita ulteriormente quando in un’intervista alla televisione olandese Assange ha lasciato intendere che la versione trumpiana dell’hackeraggio – ovvero che la fuga di notizie era partita da Seth Rich, giovane addetto alla campagna democratica di Clinton, ucciso in seguito a Washington D.C., e non dagli hacker russi – affondasse le sue radici nella verità. Alla vigilia del suo processo, i suoi avvocati hanno dichiarato che un ex deputato americano, Dana Rohrabacher, si era fatto avanti per negoziare un accordo per conto del presidente americano: Assange avrebbe dovuto sostenere la teoria su Rich in cambio di una grazia di Trump.

Al momento, l’unica grazia ottenuta di Assange è arrivata dalla Svezia che ha fatto cadere le accuse di stupro nei suoi confronti, accuse che Assange ha sempre sostenuto essere politiche, montate ad arte per screditarlo e incarcerarlo e che lo avevano portato a cercar rifugio nell’Ambasciata dell’Ecuador. Per lui si sono spesi anche personaggi lontani dal giornalismo di inchiesta come Pamela Anderson, che era stata a trovarlo nell’ambasciata quando ancora girava sullo skateboard, e la stilista Vivianne Westwood, che si è infilata in un gabbia come gesto di solidarietà. Il Guardian che ha pubblicato tante delle sue rivelazioni, ancora lo sostiene e in un editoriale pubblicato recentemente ha definito il processo nei suoi confronti un assalto alla libertà di stampa, un pericolo per tutti gli editori.

Il New York Times invece ha pubblicato nella sezione degli editoriali la testimonianza di una giornalista, Laura Poitras, vincitrice del premio Pulitzer grazie al lavoro giornalistico svolto sul National Security Agency in collaborazione con The Guardian e il Washington Post. Poitras, che non è sempre stata tenera nei confronti di Assange, critica l’obsolescenza dell’Espionage Act, che il fondatore di WikiLeaks è accusato di aver violato, in quanto si tratta di una norma introdotta durante la Prima Guerra Mondiale, ovvero in un contesto emergenziale, che non fa distinzioni tra chi è accusato di aver venduto segreti di stato a potenze straniere e chi invece informa il pubblico sui crimini commessi da uno stato. Così facendo non solo si condannerebbe Assange fino a 175 anni di carcere, dichiara Poitras, ma si stabilirebbe un precedente dannoso che potrebbe mettere in pericolo anche molti giornalisti.

Ad ogni modo, la sentenza del tribunale di Londra non chiuderà definitivamente la vicenda. Molto probabilmente, al di là da quello che deciderà il giudice Vanessa Baraitser, ci sarà un appello che potrebbe durare mesi se non anni. Sempre che Donald Trump non cambi idea e, scaricando l’ex direttore della Cia, oggi segretario di Stato americano, Mike Pompeo, non decida all’ultimo di graziare «l’uomo-verità».

Leggi anche:

Articoli di ESTERI più letti