«I giovani disoccupati in Italia sono quasi il triplo della media europea. Ma dal Covid si può anche imparare» – Lintervista
Da sette anni, l’osservatorio sulla Jobless society della Fondazione Feltrinelli si occupa di analizzare le trasformazioni del mondo del lavoro legate alla quarta rivoluzione industriale, quella legata all’intelligenza artificiale, raccogliendo dati e elementi di scenario confluiti nell’Annale appena uscito dal titolo Lavoro: la grande trasformazione (a cura di Enzo Mingione). «Abbiamo iniziato in un altro mondo, quando», dice il direttore di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Massimiliano Tarantino, «tutti gli osservatori e gli economisti planetari davano per inevitabile un mondo abbastanza vicino basato sull’internet delle cose, sul dominio del lavoro meccanizzato e digitale su quello umano e su una conseguente costante perdita di posti di lavoro».
Oggi persino le predizioni sul futuro si sono fermate, sgomente, davanti alla prima crisi economica generata da una pandemia che potrebbe persino ripetersi. Ma gli effetti sul lavoro non si sono arrestati affatto e la raccolta di dati ci permettere di ragionare su numeri che, per alcuni settori, sono più aggiornati di quelli raccontati dai mezzi di informazione negli ultimi mesi.
Massimiliano Tarantino, la Fondazione ha già fatto una predizione sul consuntivo del 2020 in tema di disoccupazione e inoccupazione giovanile. Di che numeri parliamo?
«Secondo le nostre analisi, per il 2020, il tasso di disoccupazione per le persone fra i 15 ed i 24 anni sarà oltre il 33%, contro una media europea del 12.5%, quasi il triplo. E’ il primo segnale di un meccanismo di depauperamento più ampio: soprattutto nel sud del paese le possibilità di lavoro sono ridotte, specie per i lavori qualificati. Chi ha la possibilità di trovare un lavoro interessante per la propria carriera se ne va. Forse non sarebbe neppure drammatico, se non fosse che non arrivano altri.
Non siamo attrattivi per i talenti del mondo e quelli che rimangono non hanno opportunità di avanzare, spesso neppure di impiegarsi. Nel quadro va inserito il preoccupante numero di inattivi, i cosiddetti Neet, che per i giovani arriva al 40%, e la crescita della disoccupazione giovanile: il miglioramento registrato tra il febbraio 2014 e il febbraio 2020 è stato completamente cancellato dalla riduzione avvenuta tra febbraio e giugno 2020».
E chi lavora è poi soddisfatto della posizione ottenuta?
«Siamo purtroppo ai vertici europei nel cosiddetto mismatch tra adeguatezza dell’impiego ottenuto rispetto al percorso formativo. Nel nostro Paese il 20% dei lavoratori è sovraqualificato, e di questi il 30% è laureato in facoltà STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica ndr). Rispetto all’Europa, i nostri laureati sono pochissimi, nonostante ciò, la loro scarsa presenza nel nostro Paese non ne migliora le prospettive: negli ultimi 15 anni, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25–39 ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%».
Come siamo arrivati a questo punto?
«L’economia italiana oggi è un sistema fortemente bancocentrico, con un ruolo centrale del sistema bancario e del sistema del credito. Ed è fortemente arretrata sul piano digitale. La grande ricchezza sono le Pmi, spesso molto piccole e con una visione molto contingente. Anche qui, o c’è qualcuno, lo Stato e l’operatore pubblico, al loro fianco che le aiuta ad avere prospettive più ampie oppure diventa un’economia che fa fatica a cavalcare i grandi trend.
Una cosa è certa: della creatività italiana c’è ancora enorme bisogno nel mondo, ma la strada maestra è l’innesto della tech e digital economy. La nostra proposta è quella di concertare un piano sull’industria e le competenze digitali tra i ministeri dell’Istruzione, del Lavoro e dell’Economia, con l’idea di promuovere internet e la connettività come un bene comune, essenziale per la conoscenza, per l’economia, per l’indipendenza della persona».
Altro dato, altro dubbio: il lavoro nero o illegale. Cresce, come è noto, ma questo fenomeno non è iniziato oggi, giusto?
«L’Italia si è probabilmente sopravvalutata negli anni. E’ uscita dagli anni ‘80 illudendosi di avere un’economia industriale stabile, in realtà ha cominciato a perdere pezzi quasi subito e il vuoto è stato colmato da dinamiche di propaganda. Ricorda quel vecchio slogan di Berlusconi su come voleva riformare il sistema scolastico con le tre I, inglese, impresa e informatica? Non era una cattiva idea, ma si è rivelato un proclama non seguito dai fatti. E i dati di questi giorni ci ricordano il peso di queste mancate scelte.
L’occupazione irregolare rappresenta il 4.5% del Pil italiano, pari a 79 miliardi di euro, ci lavorano 3,7 milioni di persone e complessivamente il tasso di irregolarità tra i lavoratori è del 15,6%. Anche qui i giovani sono le vittime predilette, visto che i tre quarti dei lavoratori informali sono occupati nel terziario, settore d’elezione per chi entra nel mercato del lavoro».
Quanto è esteso il campo di chi, pur lavorando, resta povero?
«In Italia quello dei working poors è un fenomeno abbastanza recente. Attualmente, però, circa il 12% dei lavoratori italiani è a rischio povertà e oltre 1 occupato su 10 non riesce ad arrivare a fine mese nonostante riceva regolarmente un salario. Molto incide la cosiddetta economia di piattaforma, ovvero dei lavoretti. Già il termine, denigratorio, non coglie la situazione di chi cerca di sopravvivere con un basso reddito, tutele inesistenti e reddito orario ridicolo».
Per alcuni, la mancanza di regole è anche la libertà di avere una fonte di reddito senza gli obblighi di un vero contratto.
«Finché è una scelta lo capisco e va bene. Ma il 40/50 enne che approda a questa occupazione perché buttato fuori dal proprio contesto lavorativo tradizionale non può essere lasciato solo. E non bastano i sussidi, i redditi di cittadinanza vanno combinati con reali politiche di reinserimento nel mondo del lavoro».
Come se ne esce?
«Bisogna essere ambiziosi, puntare ad una società del lavoro che abbia 3 pilastri: sia autenticamente europea, basata sul rinnovo delle competenze e sull’interconnessione digitale. Da questo punto di vista, il nuovo progetto del Gruppo Feltrinelli, Feltrinelli Education si basa sull’idea che la chiave per la propria realizzazione sia la formazione continua, agile, adatta ai tempi.
L’idea è di colmare il mismatch e fare formazione sulle professioni del futuro, anche attingendo alle competenze di grandi autori, e di farlo a prezzi molto competitivi, mantenendo la nostra vocazione popolare. Questo progetto nasce digitale, ma intendiamo coinvolgere i territori, anche quelli più difficili dove il divario di competenze deve essere fortemente superato».
La pandemia nel frattempo va avanti e i tempi di ripresa sembrano ancora lontani…
«E’ vero ma io, devo dire, sono ottimista, credo davvero che questa sia una opportunità».
Non rischia di essere uno slogan?
«Il Coronavirus ci ha riportato alla valorizzazione dei bisogni primari: la vita, la comunità, la presa di coscienza di quanto sia importante e soddisfacente il contatto umano. Ha rimesso al centro la priorità della dimensione umana e fatto vacillare quegli assiomi di cui parlavamo all’inizio, cioè che fossimo destinati alla società del non lavoro. E’ possibile cambiare direzione, e secondo me questa è la generazione della svolta».
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