Dopo l’assalto al Congresso, i dem invocano l’impeachment o la rimozione forzata di Trump. Che accarezza l’idea di un partito personale
Mentre il mondo si interroga se quanto è accaduto al Campidoglio sia classificabile come golpe o insurrezione, su quali e quante siano le responsabilità di Donald Trump per l’assalto alla culla della democrazia rappresentativa occidentale, si moltiplicano le voci sul futuro del presidente, sia nel breve che nel lungo periodo. Sul secondo fronte, il modo in cui Trump ha spaccato il partito repubblicano sulla ratifica della vittoria di Joe Biden e ha alimentato il mito del “tradimento” potrebbero fornire ulteriori basi, insieme al suo carisma mediatico, per portare alla costituzione di un partito ad familiam. Un quadro in cui la figlia Ivanka potrebbe vestire i panni di luogotenente o addirittura generale. Durante un comizio in Georgia qualche giorno fa il padre Donald ha rievocato l’ipotesi: «”Ma perché ne avrei bisogno papà”, mi dice Ivanka…», sono state le parole del presidente.
Nel frattempo, però, quando mancano circa due settimane all’insediamento ufficiale di Biden e della sua vice Kamala Harris, soprattutto tra i ranghi dei democratici c’è chi scalpita per defenestrare Trump anticipatamente. Come il senatore Chuck Schumer, leader dei democratici al Senato, che su Twitter ha suonato la carica. Gli fa eco la speaker dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, che chiede sia le dimissioni del capo della polizia del Campidoglio, sia la rimozione di Trump. «È pericoloso, non può restare».
L’ipotesi impeachment (di nuovo)
Per farlo ci sarebbero due modi. Il primo, già sperimentato durante la presidenza Trump e già invocato da alcuni dem (è il caso di Ilhan Omar, rappresentate democratica) prima ancora del tweet di Schumer, è quello dell’impeachment, o messa in stato di accusa del presidente. Si tratta fondamentalmente di un processo politico da parte del Congresso. La Camera dei rappresentanti sarebbe chiamata a presentare le accuse a carico del presidente – tendenzialmente reati gravi, come l’alto tradimento, corruzione o abuso di potere – e, se confermato l’impeachment, si aprirebbe un processo al Senato.
Così era accaduto nel 2019 in seguito alle accuse nei confronti di Trump di aver esercitato pressioni sul presidente dell’Ucraina per far avviare un’inchiesta giudiziaria volta a screditare Biden. In quel caso la Camera dei rappresentanti Usa aveva votato a favore della messa in stato di accusa, ma il Senato – dove serve una maggioranza di due terzi – aveva salvato il presidente. Nonostante il Senato sia nei fatti a maggioranza democratica dopo il ballottaggio in Georgia, non è detto che il partito repubblicano sia disposto ad archiviare in maniera così brutale la presidenza Trump, e in così poco tempo.
L’opzione 25° emendamento
La seconda strada che potrebbe portare all’uscita di scena di Trump prima del 20 gennaio passa dal Gabinetto del presidente. Parliamo della quarta sezione del 25° emendamento della Costituzione che prevede la sostituzione del presidente con il suo vice, temporaneamente o in modo permanente, nei casi in cui il primo non sia in grado di adempiere ai propri doveri. Nel passato recente è stato usato – in modo temporaneo e volontario, visto che permette al presidente di trasferire volontariamente il potere al suo vice per motivi medici – da Ronald Reagan e da George W. Bush quando erano sotto ai ferri durante operazioni e check-up medici.
In questo caso, Pence e la maggioranza dei 15 segretari del Gabinetto dovrebbero mandare una lettera agli speaker di Camera e Senato spiegando perché secondo loro Trump «non è più in grado di assolvere i poteri e i doveri del suo ufficio». Al presidente verrebbe data la possibilità di offrire una risposta scritta e, se dovesse contestare la decisione, spetterebbe al Congresso decidere cosa farne. Anche in questo caso servirebbe una maggioranza di due terzi al Congresso.
Trump non è così solo
Visto che il tempo stringe, entrambe le ipotesi sembrano difficili da realizzare, nonostante vengano invocate anche da figure autorevoli nei media principali del Paese e nonostante le due ipotesi trovino dei sostenitori anche tra i ranghi dei repubblicani, e non soltanto tra i democratici. Come rivela il sito Axios, ci sarebbero diversi funzionari della Casa Bianca e del Congresso, ma anche consulenti e lobbisti conservatori che, in preda alla rabbia e allo sgomento, già da ieri sera hanno cominciato a valutare quali contromisure adottare nei confronti del presidente.
C’è il rischio che, accompagnando Trump verso l’uscita, si alimenti ulteriormente la narrativa dell’elezione rubata, come ripete il presidente da oltre due mesi, facendo di lui un martire per tutti i «patrioti» che ieri hanno preso d’assalto il Campidoglio o che da casa guardavano ammirati le immagini degli scontri. Una narrazione che potrebbe far comodo al presidente anche negli anni a venire, in vista di una corsa alle presidenziali del 2024 che Trump non esclude, specie dopo il voto del 3 novembre. Magari proprio con il suo partito personale.
Molto dipenderà dall’istinto di auto-preservazione del partito repubblicano, che dovrà fare i conti con il desiderio del presidente di rimanere sulla scena. Anche se una fetta del partito – da Mike Pence a Mitch McConnell in giù – ha deciso di non seguire Trump nella sua cavalcata verso il vuoto democratico, accettando la vittoria di Biden dopo i ricorsi bocciati dai tribunali, c’è una parte che fino a ieri galoppava al suo fianco e presumibilmente continuerà a farlo. Come il texano Ted Cruz, sempre più cowboy anche nelle sue apparizioni pubbliche, e tra i candidati a confluire in un partito trumpiano. Ieri sette senatori e ben 138 rappresentanti hanno votato una mozione che contestava l’esito del voto in Pennsylvania. E l’assalto al Campidoglio era già avvenuto.
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