In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
EDITORIALICapitol HillDonald TrumpItaliaPopulismoScontriUSAUSA 2020Washington

Trump, la rivolta di Washington e l’imbarazzo ipocrita dei populisti italiani

07 Gennaio 2021 - 16:59 Umberto La Rocca
Nella notte di ieri si è visto come rischiano di finire le politiche populiste. Nelle prossime settimane vedremo come finiscono gli aspiranti stregoni che le cavalcano

Nel corso della notte, mentre le Tv di tutto il mondo trasmettono le immagini di Capitol Hill assediata e poi invasa da una composita masnada di militanti di destra, antisemiti, razzisti, troll e americani sinceramente ma erroneamente convinti che Trump sia stato derubato della vittoria, va in scena con eco molto minore l’imbarazzato distinguo dei populisti italiani.

Fino a due mesi fa Matteo Salvini ostentava mascherine inneggianti al presidente americano. Il suo slogan prima gli italiani ricalcava con pedissequa esattezza l’America first di Trump. Il leader della Lega dava credito, con apparente superficialità e con misurato calcolo, alle teorie cospirazioniste sulle elezioni americane rilanciate dal web. «Se in alcune contee ci sono più votanti che elettori vuol dire che qualcosa è successo», spiegava a Radio 24, «sarebbe come se a Milano ci fossero due milioni di schede mentre votano 1,2 milioni di persone». Guadagnandosi sul quotidiano britannico The Indipendent l’appellativo di cheerleader europeo di Trump. Ora, Salvini affida a un tweet il suo giudizio sulla sommossa di Washington: «La violenza non è mai la soluzione, mai. Viva la Libertà e la Democrazia, sempre e dovunque».

Anche Giorgia Meloni, che passa, non si sa perché, per l’astro nascente della destra italiana, parla su Twitter. Non è un caso: è il social prediletto da sovranisti e populisti di tutto il mondo perché è il regno dello stentoreo e delle risposte semplici a problemi complessi. Scrive la Meloni: «Seguo con grande attenzione e apprensione quanto sta accadendo negli Stati Uniti, mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal Presidente Trump». Dimenticando che proprio il presidente degli Stati Uniti aveva chiesto di marciare su Capitol Hill. E ancora: «In questi momenti serve grande prudenza e serietà». La stessa prudenza e serietà dimostrata dal presidente americano nel gestire la sconfitta elettorale e l’avvicendamento tra una amministrazione e l’altra, normale in democrazia, si potrebbe obbiettare.

Giusto un anno fa, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, la leader di Fratelli d’Italia si era espressa con ben altro calore. «Quella di Trump è la ricetta che vogliamo portare in Italia» aveva detto, riassumendo i valori del tycoon americano nell’immortale trittico Dio, Patria e Famiglia. Che poi, quanto a famiglia, c’è di meglio in giro, si potrebbe ancora osservare.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, da buon populista quando da quella parte tira il vento e ottimo opportunista sempre, si trincera (anche lui su Twitter) dietro il suo ruolo istituzionale e Trump neanche lo nomina. Fa gli auguri invece a Biden. E sulla rivolta della notte non un sospiro. Lontani i tempi (ma non troppo, il 27 maggio di quest’anno) in cui, intervistato da Costanzo, gorgheggiava ispirato: «Trump è una persona vera, è come la vedete e questo l’apprezzo sempre. Lavora e porta avanti politiche per il bene del suo paese: questo lo percepisci quando porta avanti iniziative che poi si possono condividere o meno. Vuole proteggere gli Stati Uniti ed il popolo americano e questo è molto importante». E’ ancora del medesimo parere ministro Di Maio o era stato un po’ superficiale quando rilasciava queste dichiarazioni entusiaste?

Non che si chieda un’autocritica, non sia mai. Ma magari un momento di riflessione sì. Su una politica che vellica gli istinti, che gioca su paure e disagi spesso fondati per incanalarli proponendo soluzioni semplicistiche e perciò illusorie e scorciatoie che non portano da nessuna parte. Su una politica che non disdegna di abbracciare tesi evidentemente false pur di costruirci sopra il consenso. Su una politica pronta a negare perfino l’evidenza dei numeri. Su una politica, infine, che alza il sopracciglio quando giudica le istituzioni della democrazia rappresentativa ma poi non ha niente di meglio da opporre loro se non il rapporto fideistico tra il capo e la folla o le stupidaggini su «uno è uguale a uno». 

Senza questa riflessione, gli imbarazzi, i distinguo e i silenzi sono ipocriti e non sono credibili. Nella notte di ieri si è visto come rischiano di finire le politiche populiste. Nelle prossime settimane vedremo come finiscono gli aspiranti stregoni che le cavalcano.

Continua a leggere su Open

Leggi anche:

Articoli di EDITORIALI più letti