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Cosa sappiamo finora della paziente 1 a Milano nel novembre 2019: quali sono ancora i dubbi degli esperti

12 Gennaio 2021 - 08:10 Juanne Pili
Perché gli indizi della presenza di SARS-CoV-2 in Italia fin dal novembre 2019 non ci convincono pienamente

Qualche giorno fa il British Journal of Dermatology ha reso pubblico un articolo, firmato da Raffaele Gianotti e altri ricercatori dell’Università Statale di Milano. Troviamo anche la firma di Enrico Gianotti (Healthcare Investment Banking, Citigroup, London). Gli autori presentano il caso di una paziente milanese di 25 anni con una patologia cutanea. Le biopsie raccolte nel novembre 2019 presenterebbero tracce di RNA del nuovo Coronavirus.

Il paper suggerisce quindi di aver individuato il primo paziente noto in Italia, con largo anticipo rispetto allo stesso focolaio di Wuhan. Tuttavia, la verifica dipende da un test noto come «analisi RNA-FISH». Attraverso l’analisi RT-PCR standard i ricercatori non riportano altrettante conferme. Quest’ultima è il test più attendibile nell’accertare la presenza diretta del virus. Per approfondire potete leggere la nostra Guida ai test diagnostici.

Gli autori citano anche i riscontri della presenza di SARS-CoV-2 nelle acque reflue fin dal dicembre 2019, come riportato in un precedente studio. Precedenti studi spostavano già l’emergere del SARS-CoV-2 tra ottobre e novembre del 2019; si tratta però di risultati che necessitano ulteriori conferme.

Per chi ha fretta:

  • Non improvvisiamo mai l’analisi degli studi scientifici;
  • Consultiamo sempre degli esperti prima della pubblicazione;
  • Il caso del novembre 2019 è limitato da una analisi diversa dalla PCR standard, che al contrario non trova tracce del virus;
  • Altre evidenze molecolari e anticorpali rendono i risultati molto interessanti, per quanto incompleti;
  • Sapevamo già che il SARS-CoV-2 potrebbe essersi originato qualche mese prima del dicembre 2019.

Cosa hanno trovato i ricercatori

I ricercatori riferiscono di una ragazza milanese di 25 anni, presentatasi con una «dermatosi orticarioide» – in pratica degli sfoghi nelle braccia. I medici hanno sospettato all’epoca che si trattasse di «lupus erimtematoso tumidus».

L’associazione tra Covid-19 e sintomi simili è nota. Esistono già studi che suggeriscono l’emergere del SARS-CoV-2 nel Mondo, almeno dal novembre 2019. Gli autori hanno quindi recuperato i campioni della biopsia, eseguendo analisi volte a trovare tracce del nuovo Coronavirus.

I ricercatori esaminano anche altre biopsie: nove casi di dermatosi e sei di carcinoma risalenti al 2018 (dunque sicuramente negativi); tre già rivelatisi positivi al SARS-CoV-2 con associate patologie alla pelle (gli autori non verifiche RT-PCR dirette, ma supponiamo facciano affidamento a precedenti analisi).

La donna si riprese nell’aprile 2020. Nel mese di giugno risultò positiva al test sierologico per le immunoglobuline G (IgG) – gli anticorpi specifici per il nuovo Coronavirus; permangono per un certo tempo, garantendo l’immunità al virus. Per approfondire trovate maggiori informazioni nella nostra Guida ai vaccini anti-Covid.

Cosa dicono le analisi

Si cercano allora tracce genetiche del virus con la RNA-FISH, e tracce dell’antigene (la glicoproteina Spike (S): il mezzo con cui il virus infetta le cellule) con una analisi «immunoistochimica» – si tratta di un test che usa appositi anticorpi per stanare la presenza dell’antigene.

L’analisi RNA-FISH trova tracce di RNA virale e l’esame istochimico rileva la presenza dell’antigene. Questi test risultano negativi nel campione di controllo relativo alle biopsie del 2018 e positivo nelle tre provenienti da pazienti Covid.

«Tutti questi fatti ci inducono a ritenere che il nostro paziente possa rappresentare il caso più antico in letteratura di rilevazione del virus su campione di tessuto – concludono i ricercatori – Possiamo quindi chiamarlo il paziente zero italiano dermatologico?».

I limiti dello studio

Il testo è piuttosto stringato e alcuni punti non risultano molto chiari. Per quanto la paziente riscontrasse IgG neutralizzanti per il SARS-CoV-2, questo è un dato che emerge nell’aprile scorso. Il fatto che vi siano casi di patologie cutanee associate alla Covid-19 è invece un dato surrogato.

L’analisi RNA-FISH e immunoistochimica sembra funzionare nei campioni di controllo. Non di meno, è stato impossibile effettuare la prova del nove con riscontri diretti mediante PCR. Gli autori ipotizzano che questo dipenda dal degrado della traccia genetica.

«Non siamo stati in grado di rilevare l’RNA virale con la tecnologia RT-PCR – continuano i ricercatori – perché la carica virale era probabilmente troppo bassa o degradata dagli enzimi RNA rilasciati dopo la distruzione esogena o cellulare».

Questo però chiude alla confutazione tale riscontro. Gli autori, per esempio, accennano ai risultati discordanti ottenuti con le poche ricerche precedenti basate sull’analisi RNA-FISH.

«Mentre la positività immunoistochimica degli antigeni proteici spike nelle ghiandole eccrine e nell’acrosiringia è già stata dimostrata in pazienti con COVID-19 (4) – continuano gli autori – pochi studi hanno utilizzato la tecnica RNA-FISH su sezioni di paraffina cutanea ma hanno ottenuto risultati negativi o discordanti».

Altri punti controversi

L’argomento della traccia genetica degradata sembra piuttosto debole. La PCR infatti dovrebbe essere notevolmente più sensibile della tecnica da loro usata, come sostiene l’esperto di genomica comparata Marco Gerdol.

I ricercatori riferiscono nell’introduzione del paper di venti pazienti ritenuti a rischio con dermatosi – ma non diagnosticati positivi alla Covid-19. Nel 70% rivelano la presenza della proteina Spike (S), mediante l’analisi immunoistochimica. Non riferiscono però di aver eseguito una analisi RT-PCR su queste biopsie, né abbiamo precisi riferimenti temporali, se non della Paziente uno.

«Abbiamo analizzato biopsie cutanee di pazienti di Milano con dermatosi e tamponi PCR positivi per SARS-CoV-2 in diversi stadi dell’infezione (1,2) – riferiscono i ricercatori – I risultati sono stati confrontati con le biopsie cutanee di 20 pazienti con dermatosi non diagnosticata con COVID-19, che erano ad alto rischio di infezione da COVID-19. Sono stati considerati ad alto rischio perché presentavano sintomi COVID-19 lievi o erano stati a stretto contatto con individui positivi alla SARS-CoV-2. Le caratteristiche e i modelli istopatologici non hanno mostrato differenze tra questi due gruppi. Inoltre, il 70% dei campioni di pelle del gruppo “ad alto rischio” era immunoistochimicamente positivo per gli antigeni nucleocapsidici SARS-CoV-2».

Con questo non escludiamo certo che tali riscontri siano stati fatti, solo che gli autori non sembrano menzionarli. Insomma, abbiamo una conferma solo parziale delle analisi effettuate. Il caso della paziente milanese sembrerebbe emergere da una ricerca più ampia, di cui ci aspettiamo di vedere prossimamente i risultati.

«Il presente caso fa parte di uno studio in corso – spiegano gli autori – in cui abbiamo osservato la positività immunoistochimica per antigeni nucleocapsidici e mRNA-FISH nelle ghiandole eccrine di sette pazienti con dermatosi come unico sintomo clinico di Covid-19».

Conclusioni: dati incompleti ma interessanti

Ci sembra legittimo avere dubbi sulla analisi RNA-FISH. Non ci sembra infatti che i riscontri siano completi. Tuttavia, quanto trovato dai ricercatori – anche con l’analisi immunoistochimica – unita alle biopsie di controllo, ci sembra piuttosto interessante. È plausibile che sia stata davvero intercettata la Paziente uno, con anticipo rispetto a quanto era noto.

Non di meno, «affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie». Saranno necessari ulteriori studi più esaustivi, prima di ritenere accertata la presenza del SARS-CoV-2 in Italia fin dal novembre 2019.

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