Sanpa, Nicolò Licata: «Muccioli? Credevo volesse salvare le nostre vite, ma voleva solo possederle» – L’intervista
Nicolò Licata è stato uno degli ospiti della comunità di San Patrignano – di cui tanto si parla nelle ultime settimane grazie alla docu-serie di Netflix SanPa – per 16 anni. Dal 1986 al 2002. Prima come ospite, poi come assistente di Muccioli. Ha fatto il centralinista, l’autista, ha lavorato nel settore decorazioni (non prendeva un vero e proprio stipendio – ci confida – ma ogni spesa sostenuta veniva rimborsata, anche per l’acquisto dei vestiti). «Io lì stavo bene, era una città nella città, quasi un paradiso con le sue regole, con i suoi metodi. Ora, però, non ci tornerei mai più. Prima pensavo che Vincenzo Muccioli (fondatore della comunità di San Patrignano, ndr) volesse salvare la vita dei tossicodipendenti, poi ho capito che voleva solo impossessarsene», ci racconta. E i motivi di questo ripensamento sono tanti.
Licata, 59 anni, palermitano ma residente a Forlì-Cesena (Emilia-Romagna), è entrato nella comunità di San Patrignano a 25 anni, nel pieno della sua giovinezza, dopo aver fatto uso di «cocaina ed eroina». La sua vita stava andando a rotoli quando ha visto una luce in fondo al tunnel. E quella luce si chiamava San Patrignano.
La sua storia
Tutto è cominciato quasi per scherzo: «Prima una canna, poi sono arrivate le droghe pesanti. Frequentavo le piazze e lì, a quel tempo, si fumava di tutto. Prima l’hashish, poi la cocaina e infine l’eroina. Ma, attenzione, guai a dire che il problema fossero le cattive compagnie. La verità è che il problema eravamo solo e soltanto noi. Mia sorella, ad esempio, che era spesso con me, non ha mai fumato una sigaretta. Figuriamoci se ha mai provato la droga… Una persona, quindi, non “sceglie” di drogarsi. Purtroppo capita, magari per debolezze o insicurezze di fondo. E così, all’improvviso, ti ritrovi, senza volerlo, in brutte situazioni».
Anche perché, per comprare lo stupefacente, il più delle volte si commettevano reati: «Sì, anche rubare e spacciare, com’è stato nel mio caso quando i miei genitori mi hanno messo alla porta, mi hanno buttato fuori di casa. Non ce la facevano più. Solo toccando il fondo, non avendo più un letto e un pasto caldo, una persona capisce che è arrivata l’ora di farsi di aiutare, di andare in comunità».
«Il mio diploma non meritato»
Così è cominciata la sua avventura nella comunità. Licata precisa di non aver mai subito violenze né di essere stato rinchiuso nel bunker, ma ci è andato vicino. «Sono scappato due volte. Mi hanno recuperato e riportato indietro con la forza. Alla seconda fuga, però, Muccioli è stato chiaro. Un’altra ancora e mi avrebbe rinchiuso per 6 mesi nel bunker, nella cosiddetta cassaforte». Così non gli è passato più per la testa di lasciare la comunità. Anzi, ha persino preso il diploma di maturità professionale per “Assistenti in comunità infantile” che, adesso, dice di non meritare affatto.
«Mi sono diplomato in sei mesi, ho fatto a stento trenta giorni di lezione, ho sostenuto l’esame nella comunità, peraltro senza nemmeno studiare. Con me c’erano tanti altri semi-analfabeti che hanno passato quella prova senza problema. Insomma, diciamolo chiaramente, ci hanno fatto un regalo». Diploma che, ci confida Licata, ha tentato di restituire poiché «non meritato». Ma dal Miur «non ha mai ricevuto risposte».
«Lo Stato si faceva i fatti suoi»
Una docu-serie, quella di Netflix, che è stata contestata dalla comunità di San Patrignano (e anche da Salvini che non ha gradito la ricostruzione): «Loro vorrebbero vedere solo le cose positive. Ma quelle negative ci sono state, eccome, e vanno raccontate. Muccioli è stato fortunato, ha anche avuto l’appoggio dei Moratti, come si vede nella serie. E, diciamolo francamente, senza quello la comunità non sarebbe cresciuta così tanto. Intanto lo Stato dov’era? Si faceva i fatti suoi, gli conveniva chiudere gli occhi».
Foto in copertina: Netflix | SanPa
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