SanPa, parla Giuseppe Maranzano: «Mio padre torturato e ucciso in comunità. Muccioli responsabile» – L’intervista
Giuseppe Maranzano oggi ha 41 anni. All’epoca dei fatti ne aveva 9. Ed è a quell’età che è stato privato del padre, Roberto, ucciso barbaramente il 5 maggio 1989 a San Patrignano, nella comunità di Vincenzo Muccioli oggi (di nuovo) al centro delle polemiche dopo l’uscita della docu-serie di Netflix, SanPa. Una comunità in cui la violenza – si pensi al «processo delle catene» – secondo molte testimonianze era di casa. Tutto comincia quando suo padre, agente di commercio, innamorato dei suoi figli, capisce di aver bisogno di aiuto. Fa uso di eroina e perde il controllo della sua vita. Così dalla Sicilia, da Palermo, vola a San Patrignano ed è lì che nel 1988 inizia il suo incubo fatto di percosse, violenze e, infine, l’omicidio, inizialmente spacciato per una rissa tra malviventi per una partita di droga finita in tragedia.
«Mi fa rabbia che ci siano voluti 30 anni per far sapere a tutti cos’era anche San Patrignano e chi era Muccioli. E mi fa rabbia che gli assassini di mio padre non si siano fatti nemmeno un giorno di galera. Questa non è giustizia», dice Giuseppe Maranzano, figlio di Roberto, a Open. Fino alla messa in onda della docu-serie – ci confida – «era difficile parlare di questo caso. C’è stata un’opera di insabbiamento. Non se ne poteva parlare male». Ora che il re è nudo e che in tanti, soprattutto ex ospiti della comunità come Nicolò Licata e Fabio Cantelli, entrambi intervistati da Open, hanno raccontato le loro storie, un’altra realtà è venuta a galla.
Cosa è successo a Roberto Maranzano
L’incubo di Roberto Maranzano comincia quando viene trasferito nel “reparto macelleria” di San Patrignano, noto per essere un reparto punitivo. Lì viene picchiato per due volte, la prima per futili motivi, la seconda perché non riusciva a portare sulle spalle un sacco di mangime per animali, pesante 30 chili. Maranzano è distrutto, provato dal pestaggio del giorno prima. È a quel punto che Alfio Russo, a capo del reparto macelleria, pensando che Maranzano voglia “sottrarsi ai suoi doveri” e dunque ribellarsi ai suoi ordini, perde la testa: «Forse non voleva ucciderlo, o almeno non credo che fosse nelle sue iniziali intenzioni. Di fatto lo ha assassinato. Anzi, è stata una tortura. Gli hanno rotto costole e vertebre, la faccia era distrutta, il corpo pieno di lividi e bruciato da quella pistola che viene usata per dare scosse elettriche ai maiali». Una fine atroce. Era il 5 maggio 1989. E l’immagine del suo corpo parla da sola.
Dopo l’omicidio Alfio Russo «insieme a Giuseppe Lupo ed Enzo Persico (tutti poi condannati ma finiti ai domiciliari a San Patrignano)» provano in tutti i modi a sbarazzarsi del corpo di Roberto. «Volevano far credere che prima fosse scappato dalla comunità e che poi fosse morto in un regolamento di conti tra malviventi, tra tossici, magari per una partita di droga. “È scappato”, disse Muccioli a mia zia». Ma così non è. Anzi. Maranzano verrà ritrovato qualche giorno dopo in una discarica abusiva a Terzigno, in provincia di Napoli. Si può davvero credere che i tre accusati abbiano fatto tutto senza avvertire Muccioli? Per esempio, come sono riusciti a utilizzare la macchina della comunità, senza il consenso dei superiori, e ad allontanarsi così tanto (si parla di oltre 500 km) senza avvertire il loro capo?
Indagini «farsa» e caso insabbiato
Il caso Maranzano venne archiviato subito, nonostante le indagini: «Quell’inchiesta l’hanno dovuta fare – ci spiega il figlio della vittima – a seguito del ritrovamento del corpo di mio padre avvolto in una coperta della comunità. Ma quelli fatti a San Patrignano non erano altro che sopralluoghi “farsa”, hanno controllato anche una stanza che non era quella in cui dormiva mio padre. In comunità, pensate, hanno avuto pure il tempo di far sparire ogni indizio, ogni prova. Non sono state fatte indagini accurate perchè mio padre, alla fine, era “solo” un tossico, a chi gliene fregava a quel tempo… I tossici, è bene ribadirlo, erano stigmatizzati, erano lo schifo della società».
Indagini approssimative insomma, secondo il figlio di Maranzano. E, in effetti, ci sono voluti 4 anni per scoprire che quello non era un semplice regolamento di conti ma un omicidio commesso all’interno della comunità. Dal 5 maggio 1989 (quando venne ucciso Maranzano) all’8 marzo 1993 quando iniziarono ad affiorare, almeno ufficialmente, i primi dubbi. E solo con la confessione di un pentito, Luciano Lorandi, che aveva parlato con un’operatrice, si scoprì che, invece, il delitto era stato commesso in macelleria e che gli aguzzini di Maranzano non erano altro che i responsabili della macelleria. Una macelleria della morte. Dopo le torture, infatti, emerse che Roberto Maranzano era stato soffocato da Alfio Russo che «pesava oltre 100 chili» e che gli sarebbe salito «addosso, sul collo, fino a ucciderlo».
«Muccioli sapeva tutto»
In un primo momento Muccioli fece finta di non saperne nulla, finse di rimanerne sorpreso. Poi ammise tutto: i responsabili glielo avevano confessato dopo mesi, diceva lui (dopo poche ore o dopo pochi giorni, secondo altre testimonianze). «Muccioli sosteneva di aver taciuto per un “patto di segretezza” con i suoi ospiti e per non rovinare la comunità e i suoi ragazzi. Ma non era né uno psicologo né un prete. Doveva riferire subito i fatti. E comunque lui è venuto a conoscenza del delitto fin da subito, non dopo mesi. Evidentemente non era importante la morte di un uomo, di un padre di famiglia, con due figli a carico. Per me, quindi, Muccioli è responsabile diretto dell’omicidio di mio padre», dice ancora Giuseppe. «Si è girato dall’altra parte, sapeva e doveva parlare. Poi, tra l’altro, ha deciso lui di mandare mio padre nel reparto punitivo. E dal primo giorno in cui è arrivato in macelleria sono cominciate le botte, senza motivo alcuno. Botte per il piacere di darle. Mio padre ne prese più di tutti». L’escalation di violenza cominciò quando a Russo «fu negato, da parte di Muccioli, il fidanzamento con una ospite della comunità».
Ma il capo della comunità di San Patrignano poteva fare davvero tutto da solo? «No, certo, era potente, coperto dalla finanza e dalla politica. Lui è stato molto furbo, ha cavalcato l’onda, ha capito le esigenze che aveva l’Italia in quel periodo con uno Stato impreparato nel trattamento dei tossicodipendenti». Muccioli – è bene sottolinearlo – viene assolto per il «processo delle catene» ma «condannato per l’omicidio di mio padre». 8 mesi per favoreggiamento con sospensione condizionale.
Il caso di Natalia Berla
E alla storia di suo padre si lega, forse, anche quella di Natalia Berla, 32 anni, che, secondo la ricostruzione ufficiale, si sarebbe suicidata il 13 marzo 1989 buttandosi da una finestra della comunità. Il motivo? Avrebbe voluto fuggire. Secondo i racconti di alcuni ospiti, però, il sospetto è che le cose non siano andate effettivamente così: c’è chi l’avrebbe vista con lividi sul volto, chi sostiene che l’avrebbero colpita con l’idrante ad acqua gelida, chi che l’avrebbero picchiata e rinchiusa. «O è stata uccisa o comunque istigata al suicidio, a causa di queste continue violenze. Com’è possibile che la sera prima dice di essere felice di poter lavorare finalmente con i cavalli, la sua più grande passione (come Natalia aveva raccontato al fratello gemello in una lettera, ndr) , e dopo qualche ora si toglie la vita? Qualcosa non torna», dice Giuseppe Maranzano.
Immagine di copertina: Netflix | SanPa – Foto da La Mappa Perduta
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