Viaggio nelle terapie intensive di Roma, tra turni infiniti e “pressione negativa”. I medici: «Aumentare i posti potrebbe non bastare» – Il video
Nei reparti di terapia intensiva Covid si lavora in pressione negativa: abbassare la pressione dell’aria rispetto all’esterno serve a evitare che una semplice apertura della porta faccia uscire dall’ambiente particelle tossiche, batteri o virus, appunto. La sensazione è quella che si ha quando si fa un viaggio in aereo, ma questo viaggio dura, se va bene, dieci ore al giorno. Per questo motivo medici e infermieri, da quando è esplosa l’emergenza sanitaria da Coronavirus, hanno cominciato a soffrire spesso di mal di testa. Lo sbalzo di pressione tra l’ospedale e il mondo esterno può essere insopportabile per il fisico e l’allungamento dei turni di lavoro diventa ancora più pesante da sostenere. Al San Filippo Neri di Roma, i posti letto in reparto sono 28. Per adesso il personale riesce a farsi carico di chi varca la soglia delle rianimazione, nonostante gli infermieri non facciano in tempo a togliere le lenzuola di un malato perché un altro è già in arrivo. E’ però a causa della crescita dei contagi e dei reparti quasi sempre pieni, come questo, che venerdì scorso l’Istituto superiore di sanità ha deciso di mettere anche il Lazio tra le regioni in zona arancione e non gialla, come era stato dalla fine dell’estate.
Come spiega Walter, che lavora in quelle stanze da 30 anni, tutti coloro che arrivano in terapia intensiva sono «potenzialmente compromessi». La percentuale di rischio si alza quando, come le cronache scrivono da un anno, il paziente ha già patologie pregresse. Finire in quei letti è spesso l’ultimo tentativo di salvezza: «La mortalità è del 70%», ci dice Roberto Carlucci, medico nei reparti Covid.
Reparti (quasi) in tilt
Il tasso di occupazione nelle terapie intensive nel Lazio da Natale ha ripreso a salire. Dal 31%, è passato al 34%, cioè sopra la soglia di sicurezza fissata dall’Istituto Superiore di Sanità, 30%, e raggiunta solo ieri, 16 gennaio. Lo scorso 3 dicembre i posti letto occupati nelle terapie intensive erano ben 364, numero che rappresenta il picco della seconda ondata. Da metà novembre il Lazio non è mai sceso sotto i livelli di guardia per quanto riguarda la capacità limite dei reparti ordinari e di quelli di terapia intensiva.
«Le cose», dice il primario dei reparti di terapia intensiva al San Filippo, Mario Bosco, «non miglioreranno. Se le mie previsioni sono giuste, verso il 20-25 gennaio andremo incontro a una nuova impennata di contagi e, quindi, di potenziali malati che finiranno in rianimazione». Le infermiere, nei corridoi, tirano un sospiro di sollievo al pensiero di non essere nella stessa situazione di un anno fa, «quando avevamo i letti a castello», dicono con amara ironia, cercando di rendere l’idea di quello che era stato un vero sovraffollamento. Ma per quanto durerà ancora? Stressare le terapie intensive significa mandare in tilt l’ecosistema ospedaliero, perché il personale impiegato nei reparti “ordinari” deve invece convertirsi in personale Covid. A farne le spese sono soprattutto gli specialisti di anestesia e rianimazione.
L’annuncio della Regione Lazio
Più di una settimana fa l’Unità di Crisi della Regione comunicava di aver messo in moto un piano per il potenziamento delle terapie intensive Covid. «Saranno altri 85 i posti a disposizione attraverso moduli aggiuntivi opportunamente provvisti di tutte le tecnologie e di questi 20 posti aggiuntivi sono già pronti e disponibili presso l’Istituto Spallanzani. Il completamento dei restanti posti di terapia intensiva è previsto come termine ultimo entro la metà di febbraio», scrivevano. «Abbiamo sempre viaggiato sul filo del rasoio, il numero di posti è sempre stato al limite», spiega Bosco.
«Per quanto riguarda l’Asl1 di Roma, l’incremento rispetto al periodo pre Covid, dunque in una situazione normale, dovrebbe essere di quasi il doppio». Quindi quasi 170 posti. «Aumentare le postazioni adesso» – aggiunge Bosco -, «in emergenza, significherebbe dover adeguare anche il personale: il rapporto assistenziale deve essere calibrato in un certo modo: 1 a 4 per quanto riguarda i medici e 1 a 2 per gli infermieri». Contrariamente a quanto accade nei normali reparti di degenza, dove il personale è molto ridotto.
Medici e infermieri
Lavorare in terapia intensiva è una passione, «una dipendenza», come racconta la coordinatrice infermieristica che troviamo in reparto. Lasciata la porta d’ingresso alle spalle, ai lati delle pareti di un lungo corridoio, uno scaffale pieno di anfibi. Sono l’ultima alternativa agli zoccoli sanitari, «più pratici perché non dobbiamo toglierli ogni volta, durante la svestizione, ma li immergiamo direttamente nel disinfettante quando ancora li abbiamo ai piedi».
Sull’altra parete, le visiere, uno dei simboli indiscussi di questa epidemia. Ogni medico o infermiere ha la sua, personalizzata, con tanto di nome scritto in corsivo. Per i più creativi, la fascia che poggia sulla fronte contiene anche qualche scarabocchio, come cuori e stelle. «Siamo esausti. Là fuori devono capire che questa non è vita per noi, ma soprattutto per chi è tenuto in vita da cavi e macchine».
Video e foto: OPEN | GIULIA MARCHINA
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