L’economista Zamagni: «Il Recovery plan Italiano? È miope. Quello di Marshall funzionò perché guardava alle generazioni future»
Consapevole o meno, il governo italiano sta scrivendo la storia. I fondi in arrivo dal Next Generation Eu non solo in sé un evento che rimarrà nella memoria collettiva, ma un vero e proprio spartiacque che deciderà le sorti del prossimo futuro. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Recovery Plan italiano che verrà presentato all’Unione europea, sancirà se e come l’Italia riuscirà a rialzarsi dallo schiaffo del Coronavirus. Per molti, però, il nostro Paese non si sta dimostrando all’altezza della sfida.
Per fare in modo che i soldi non vengano sprecati, è importante che il piano non venga inteso come un semplice decreto Ristori. Che sappia, cioè, ben bilanciare gli interventi sul qui e sull’ora con quelli di più ampio respiro, attraverso progetti mirati e modelli di spesa snelli, per fare in modo che la crisi non ricada sulle prossime generazioni. Ma perché il piano italiano sembra non centrare gli obiettivi? Lo spiega il professor Stefano Zamagni, economista e accademico, famoso nel mondo per i suoi studi sull’economia sociale.
A capo della Pontificia accademia delle scienze sociali ed ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore, Zamagni ha individuato diversi punti deboli del testo. Mancanze presenti anche nella sua ultima versione, quella arrivata dopo la richiesta di correzioni avanzata da Italia Viva prima della rottura con il governo. Certo, alcuni settori hanno visto aumentare i fondi a loro destinati (come la sanità, l’istruzione e la ricerca), ma il nodo dei progetti sembra ancora irrisolto. E il rischio, dice l’economista, è che tra un anno saremo al punto di partenza.
Professor Zamagni, che ne pensa di questa seconda versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza?
«Il piano italiano è quello che in economia chiameremmo un second best: è migliorato rispetto alla versione originaria, ma non si può dire che sia un first best, cioè un piano ottimale. E questo perché ci sono 3 problemi: uno di metodo, uno di contenuto e uno di completezza».
Partiamo dal primo problema, il metodo: cosa hanno sbagliato?
«In una situazione come questa, occorreva applicare il principio della democrazia deliberativa, ovvero coinvolgere le associazioni della società civile. Certo, stilarlo e chiuderlo spettava al governo, ma questo non significa che non si doveva coinvolgere la società civile organizzata. E questo non è solo un problema nell’ottica di tirar fuori un progetto valido, ma è anche una violazione grave del principio di sussidiarietà, previsto dalla Costituzione. L’articolo 118, infatti, prevede che le istituzioni, dallo Stato fino ai Comuni, favoriscano il coinvolgimento dei cittadini nello svolgimento di attività di interesse generale».
Sui contenuti, invece, cosa pensa? L’Ue sarà soddisfatta?
«Come dicevo il miglioramento c’è stato. Nonostante questo, però, permane una sproporzione importante: quella tra gli interventi che tendono a migliorare la “precarietà” – cioè la condizione momentanea ed emergenziali – e quelli che invece vanno a migliorare la “vulnerabilità” – cioè la condizione di difficoltà che dura nel tempo. I primi sono sicuramente superiori rispetto ai secondi. Questo non va bene, e non aumenterà la capacità di resilienza del nostro sistema. L’Unione europea non tarderà a farcelo notare: non a caso lo ha chiamato Next Generation Eu. Parlare di Recovery Fund è sbagliato e fuorviante: una parola come “ripresa” induce a pensare che vogliamo tornare alla situazione di prima, e invece non è così. Questo piano deve avere come obbiettivo la generazione futura, non quella presente».
Hanno ragione i giovani a protestare, quindi?
«È assolutamente vero che hanno fatto poco in questi termini. E con la parola Recovery vogliono cercare di annacquare un po’ tutto senza mirare dritti al punto».
E le mancanze, invece, quali sono?
«In primis sicuramente il Terzo settore, che nella prima versione era totalmente assente. Volontariato, associazioni, Ong. Mentre Francia, Germania e Spagna hanno dedicato un’ampia parte delle risorse a loro disposizione per rafforzarli, noi gli abbiamo riservato appena qualche spicciolo. Ma se noi non diamo spazio a queste realtà, la tanto citata “resilienza” non potrà aumentare. Non riusciremo a far fronte agli shock futuri senza dare più peso al terzo settore della sanità, dell’educazione, della scuola, del territorio, dei beni culturali, etc.
In più, avremmo dovuto prevedere dei finanziamenti diretti, non farglieli arrivare tramite l’ente pubblico. Anche perché c’è un altro grande assente nel piano: un nuovo modello di spesa e di controllo. Nel senso: quali meccanismi useremo per spendere questi soldi? Ci affideremo alla solita burocrazia, come quella degli appalti, che trasformerà tutto in belle opere mai realizzate? Ma soprattutto abbiamo bisogno di fare in modo che chi usa queste risorse documenti esattamente sia il modo di realizzazione dei suoi progetti, sia l’effetto che ha avuto sulla società. Bisogna imporre, intendo, una valutazione dell’impatto».
Il punto debole del piano sembra, in definitiva, quello di non riuscire a organizzare i fondi al fine di garantire un impatto a lungo termine. Ma dal punto di vista storico, esistono dei modelli ai quali si potrebbe guardare per prendere esempio?
«Il Piano Marshall è uno di questi. Certo, il contesto era diverso, ma si era centrato l’obiettivo. E questo proprio perché c’era stata la volontà dei governi dell’epoca di applicare la valutazione di impatto sociale. Ricordiamo quello che rispose Alcide De Gasperi a chi lo criticò per non aver speso i fondi per aumentare i livelli di consumo della popolazione ma, al contrario, per migliorare le infrastrutture produttive (come le fabbriche): se si usano questi soldi per migliorare le condizioni di vita di oggi, fra un anno saremo nella stessa situazione».
A proposito di governo, pensa che la crisi possa peggiorare ancora le cose?
«Mah, staremo a vedere. Sinceramente non sono nemmeno convinto che si andrà fino in fondo con la crisi».
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