Dai cuochi liberi professionisti all’acquisto di un set di coltelli: tutto quello che non funziona nel bonus chef
La battaglia a favore dei cuochi, sostenuta dalla deputata di Forza Italia Maria Spena, è cosa fatta. Nella nuova legge di bilancio approvata al Senato lo scorso dicembre, infatti, è stato inserito il cosiddetto bonus Chef, emendamento presentato dall’onorevole nelle settimane precedenti alla firma del documento. Qualcosa, però, non torna. Sul testo approvato (articolo aggiuntivo 18 bis, convertito nei commi da 117 a 123 della legge di bilancio) si legge che «al fine di sostenere il settore della ristorazione, anche in considerazione delle misure restrittive adottate a causa del Covid-19, ai soggetti esercenti l’attività di cuoco professionista presso alberghi e ristoranti, sia come lavoratore dipendente sia come lavoratore autonomo in possesso di partita IVA, anche nei casi in cui non siano in possesso del codice ATECO 5.2.2.1.0, spetta un credito d’imposta fino al 40 per cento del costo per le spese per l’acquisto di beni strumentali durevoli ovvero per la partecipazione a corsi di aggiornamento professionale, strettamente funzionali all’esercizio dell’attività, sostenute tra il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021».
Il testo dell’art. 18 bis
A non quadrare è il testo stesso del 18 bis che, secondo gli uffici preposti ai vari controlli, contiene diversi errori sostanziali. Il primo riguarda la citazione di «cuochi professionisti presso alberghi e ristoranti, in possesso di partita IVA». Sentito l’ispettorato del lavoro, infatti, gli uffici tecnici spiegano che «gli chef che cucinano, anche provvisoriamente, presso una struttura ricettiva o di somministrazione, devono essere inquadrati con un contratto di lavoro, seppur transitorio o di collaborazione occasionale». In caso di controllo, perciò, è molto probabile che un consulente dei fornelli che sta esercitando per un periodo circoscritto, debba cambiare il rapporto di lavoro in essere in quel momento disciplinandolo con un contratto di dipendenza.
Unica eccezione: il servizio catering, o una partecipazione spot, ma che non includa l’uso della cucina. Perché? «Quando c’è un rapporto di lavoro subordinato e un orario da rispettare, è del tutto improbabile che si possa parlare d’incarico autonomo – spiegano dall’Ispettorato del lavoro – il fatto stesso di cucinare, infatti, implica lo stare in cucina per un tempo stabilito a priori e l’uso delle attrezzature – dalle pentole ai fuochi – di proprietà del locale dove sta prestando servizio». Insomma tutti quelli che cucinano in ristoranti o alberghi «devono essere contrattualizzati come dipendenti anche se possiedono una loro partita Iva – concludono dall’Ispettorato – che, comunque, non possono utilizzare per questo tipo di collaborazione».
Gli chef a domicilio
Gli chef liberi professionisti, infatti, sono per lo più quelli che cucinano a domicilio, o partecipano a un evento speciale, uno show cooking per esempio. Categoria che, comunque, non rientra tra quelle previste dall’agevolazione fiscale normata dal 18 bis contenuto nell’ultima legge di bilancio. La lettura della norma trova sostanzialmente d’accordo anche i professionisti della consulenza fiscale, secondo i quali, di fatto, «è noto che, quando gli ispettori incappano in uno chef che cucina in un ristorante o un hotel usando la partita Iva, multano il titolare e lo invitano a trasformare quella collaborazione in rapporto di lavoro subordinato».
Stando così le cose, confermate anche dai racconti di molti imprenditori del food, resta da capire a quali «lavoratori autonomi in possesso di partita IVA che esercitano il mestiere di cuochi professionisti presso alberghi e ristoranti» faccia riferimento il 18 bis se, a poter chiedere davvero il Bonus Chef, di fatto sono solo i cuochi dipendenti presso hotel e ristoranti. Perché anche in questo caso, c’è una nota che stona. Se, infatti, è legittimo pensare che questi professionisti possano, in piena autonomia, chiedere la riduzione fiscale normata dal bonus Chef per «corsi di aggiornamento professionale», diventa difficile ipotizzare che gli stessi possano richiedere il bonus per «spese per l’acquisto di beni strumentali durevoli (…) strettamente funzionali all’esercizio dell’attività» come prevede il 18 bis. Al netto del set di coltelli e poco altro, gli attrezzi usati da un cuoco subordinato sono di proprietà della struttura per cui lavora, che ne ha la responsabilità ed è tenuta a verificarne funzionalità e sicurezza.
Il codice ATECO
Infine, c’è un terzo punto che non torna. Il bonus Chef agevola anche i professionisti che «non siano in possesso del codice ATECO 5.2.2.1.0». E non si capisce il perché di questa specifica, dato che quello è un codice che non ha nulla a che fare con la materia di cui tratta lo stesso articolo. Secondo i consulenti fiscali di Confesercenti, «ATECO 5.2.2.1.0 è una sigla esistita fino a una decina d’anni fa, poi modificata in ATECO n. 47210; e riferibile, oggi come allora, al “commercio al dettaglio di frutta e verdura fresca”».
Anche l’Unione delle Camere di commercio precisa che oggi «l’ATECO 5.2.2.1.0 non riguarda il settore ristorazione ma attività di servizi connessi ai trasporti terrestri». Un codice con quella sigla che fa riferimento al settore ristorazione però c’è: è quello usato dall’Istat per classificare la professione dei cuochi in alberghi e ristoranti; ma che, come conferma lo stesso Istituto Nazionale di Statistica, «non ha nessun valore a fini fiscali» e, perciò, può essere requisito per accedere a crediti d’imposta agevolati. In conclusione, chi può davvero chiedere il bonus Chef? Di fatto, soltanto i cuochi professionisti, lavoratori dipendenti presso alberghi e ristoranti, che nel primo semestre 2021 vogliono fare dei corsi di formazione, acquistare un set di coltelli, una centrifuga per lavare la verdura, o poco più.
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