Al governo con il nemico. Lo slancio di Salvini lega le mani a Zingaretti. E i malumori tra i dem aumentano
Si potrebbero pescare decine, forse centinaia di dichiarazioni di esponenti di ogni colore politico che in questa legislatura hanno detto «mai». «Mai con i sovranisti della Lega» da un lato, dall’altro «mai con il partito di Bibbiano». Invece, ciò che il Quirinale, incaricando Mario Draghi, ha insegnato alle forze parlamentari è che, in politica, vale soltanto il «mai dire mai». La mattina del 6 febbraio, i partiti della maggioranza cosiddetta Ursula si sono trovati a fare i conti con Matteo Salvini che si sveglia «europeista» e Claudio Borghi che definisce l’ex presidente della Bce «un fuoriclasse». La Lega ha fatto la sua mossa: stravolgere il proprio impianto politico, comunicativo, valoriale, per non restare fuori dai giochi e spiazzare l’alleanza M5s-Pd-Leu.
La Lega si candida a far parte del nascente governo Draghi e il centrosinistra si trova davanti a un bivio: disattendere la richiesta del presidente Sergio Mattarella, ovvero dare la fiducia all’esecutivo guidato dal “tecnico”, oppure partecipare ai lavori, accettando di sedersi in Consiglio dei ministri con la destra sovranista. È una faglia. Per non caderci, gli esponenti del Pd tentano di spiegarla così: «In un anno e mezzo di governo, siamo riusciti a far emergere la parte meno populista dei 5 stelle. Sono scettico, ma anche la Lega potrebbe cambiare», ha detto il senatore Alessandro Alfieri. La realtà è che il Pd spera che sia Draghi a prendere delle decisioni che escludano la Lega, sperando di contare sull’appoggio dei 5 stelle. Lo scrive anche Beppe Grillo su Facebook, citando Platone, «accontentare tutti è la via per l’insuccesso».
L’apertura di Salvini ostentata in conferenza stampa, subito dopo le consultazioni con Draghi, nasconde già la prima insidia. Pare che il leader leghista, durante il colloquio a Montecitorio, abbia insistito molto sul tema del turismo e poi, a favore di telecamere: «La condivisione con Draghi sullo sviluppo dell’Italia è totale, dallo sblocco dei cantieri al settore del turismo che sta soffrendo più di altri per la pandemia». È un segnale al Dem Dario Franceschini, titolare del Mibact, che potrebbe celare una richiesta leghista di spacchettamento del Mibact, facendo accorpare il Turismo all’Agricoltura come nel Conte uno. Oppure, un’altra ipotesi, è quella di puntare alla delega al Turismo per un sottosegretario di Stato leghista: in pole position c’è Giancarlo Giorgetti.
Non sarà, dunque, solo il Partito democratico a dover scegliere tra due strade, ma anche Mario Draghi si troverà presto davanti a un bivio. Nel momento in cui dovrà definire il programma di governo e sottoporre al Quirinale la lista dei ministri compirà una scelta: includere la componente di punti programmatici e di politici leghisti nel governo, oppure prediligere le richieste della maggioranza del Conte due, “spingendo” i gruppi parlamentari del Carroccio a non dargli la fiducia. Se il programma sarà basato sulla risposta all’emergenza sanitaria ed economica, sarà più facile per i leghisti aderirvi e più difficile per il Pd sedersi al tavolo. L’imbarazzo dei Dem è più forte rispetto a quello del Movimento che, nel Conte uno, con la Lega ci ha già governato.
Memori dell’esperienza conclusasi nell’agosto 2019, il Movimento potrebbe essere il game changer della conformazione della maggioranza: per una questione numerica, i grillini al governo devono starci. Secondo alcune fonti vicine alla leadership 5 stelle, tra i desiderata arrivati a Draghi dal Movimento, ci sarebbe quello di dare un impianto al nuovo governo basato sull’alleanza M5s-Pd-Leu. «Il riferimento europeista per uno sviluppo sostenibile – dicono – che lavorerebbe meglio senza gli agguati leghisti». Nei 5 stelle, con il placet del garante Beppe Grillo, sta prevalendo la compagine governista. La trasformazione da movimento a soggetto politico consolidato nel centrosinistra. Le spinte anti-establishment appaiono sopite o, per dirla come il comico genovese, «le fragole sono mature».
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