Clubhouse e i dubbi sulla privacy. Il Garante italiano chiede chiarimenti: «Vogliamo capire cosa non stanno dicendo»
Di social si può vivere. E si può vivere bene. Il successo raggiunto da influencer e imprenditori che hanno imparato a crearsi uno spazio di pubblico su queste piattaforme fa gola a molti. Per questo appena si affaccia una piattaforma nuova, in cui il contatore dei follower si azzera, parte subito la gara per posizionarsi e diventare pionieri di un terreno inesplorato. L’ultimo caso è stato quello di Clubhouse, il social basato tutto sulla voce che è diventata l’app più discussa delle ultime settimane.
Un successo che non è passato inosservato negli uffici del Garante della Privacy che, si apprende oggi, ha deciso di inviare una lettera ai gestori del social per capire meglio certi punti ancora opachi. La conferma arriva a Open da Guido Scorza, avvocato cassazionista e componente del Collegio del Garante per la protezione dei dati personali. «Abbiamo chiesto una serie di chiarimenti. Nella lettera che abbiamo inviato ci sono punti ancora da risolvere come la gestione della rubrica e la registrazione delle conversazioni. Al momento non abbiamo ricevuto nessuna risposta, la richiesta è stata fatta alla fine della scorsa settimana».
Il Beta test e la profilazione degli utenti
Il modello di business dei social network è noto. Viene offerto un servizio che si paga con la cessione di una serie di dati personali. Quali siano questi dati e come vengano ceduti cambia da social a social. Clubhouse ufficialmente è un’app ancora in Beta test, quella fase di sperimentazione in cui il prototipo viene provato da una platea prima di aprirla al pubblico. È questo il motivo per cui l’app funziona ancora ad inviti. Una circostanza però che in questo momento non pesa sulle richieste del Garante: «Beta test o non Beta test a non non interessa. C’è sempre un trattamento dei dati e ora è importante capire come funziona».
Una lettera del genere è stata mandata anche dall’Autorità per la Privacy di Edimburgo. «Quello che dicono nella loro informativa sulla privacy è troppo poco – continua Scorza – . A noi interessa quello che non dicono. Non è chiaro ad esempio se le conversazioni vengano registrate. Adesso lasciamo loro due settimane di tempo per risponderci, poi capiremo meglio cosa fare».
L’app bannata in Cina
Nel frattempo anche Clubhouse si aggiunge al lungo elenco di piattaforme che sono state bannate in Cina. Nelle ultime settimane il social è stato usato da diversi utenti per creare Room in cui parlare di temi non graditi al governo, come la repressione della minoranza degli uiguri o Taiwan. Clubhouse non era ufficialmente disponibile sull’app store cinese ma bastava usare una Vpn per scaricarla sul proprio smartphone. Una volta installata l’app, probabilmente perché poco conosciuta alle autorità, riusciva senza problemi ad aggirare la censura del Great Firewall, la grande muraglia informatica che protegge i confini (ideologici) di Pechino.
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