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Parla l’infermiera del primo reparto Covid di Codogno: «Un anno fa il caos. Oggi? Siamo stanchi e preoccupati»

21 Febbraio 2021 - 08:52 Cristin Cappelletti
Ada de Maggio racconta a Open di quei giorni di febbraio. Il suo reparto di chirurgia fu il primo a essere riconvertito in un'area Covid

È da poco passata la mezzanotte, quando in Italia viene confermato il primo caso di Covid-19. Mattia Maestri, 38 anni, diventa così il paziente uno. Nel giro di poche ore, Codogno, un piccolo paesino della provincia lodigiana, attira su di sé l’attenzione mediatica, l’interesse dei curiosi e la preoccupazione degli operatori sanitari e del governo. Quello che sembra un focolaio locale è solo la punta dell’iceberg di un’epidemia che – si scoprirà poi – circola ormai da mesi su tutto il territorio. Sono due dottoresse – Annalisa Malara e Laura Ricevuti – a intuire per prime che Mattia può essere affetto dal virus Sars-CoV-2. Così, rompendo ogni protocollo procedono a effettuare il tampone. Il risultato: positivo.

L’Italia si scopre così vulnerabile e un virus che fino a qualche settimane prima sembrava relegato alla Cina entra nelle nostre vite. L’ospedale di Codogno diventa così il primo a sperimentare i procedimenti per i tamponi, a imporre l’uso della mascherina, e a far indossare agli operatori sanitari quelle tute bianche che con i mesi diventeranno familiari. Fuori dall’ospedale però tutto si ferma, e un intero paese viene messo per la prima volta in quarantena. La parola lockdown inizia a entrare nelle nostre case e pochi giorni dopo, l’11 marzo, la chiusura di negozi, scuole, e attività non essenziali riguarderà tutta l’Italia.

«Quel 21 febbraio siamo stati catapultati in una realtà diversa»

«Quel 21 febbraio siamo stati catapultati in una realtà diversa». Ada De Maggio lavora come infermiera all’ospedale di Codogno e il suo reparto, quello di chirurgia, è il primo, in quelle settimane, a essere convertito in reparto Covid. «Non esistevano più reparti, non c’erano più ruoli, ci siamo fin da subito adattati a quella situazione», racconta De Maggio a Open. Un anno dopo, le emozioni e le paure sono le stesse di quei giorni: «Ci pensiamo ancora oggi, ogni giorno. Inizialmente non riuscivamo a crederci che stesse succedendo a noi, a Codogno», dice De Maggio. E infatti in pochi giorni la provincia Lodigiana diventa il centro del mondo, tutte le reti televisive internazionali si fermano a Codogno: «È stato molto traumatico».

Ma fin da subito quella che gli operatori sanitari hanno davanti è una corsa contro il tempo: «Abbiamo dimesso i pazienti che potevano essere dimessi e nel giro di pochi giorni l’ospedale è stato interamente riconvertito». Gli interventi non urgenti vengono sospesi, e i lunghi processi di sanificazione prima e dopo, diventano la norma. Per la prima volta gli operatori sanitari sperimentano il distanziamento imposto dal Coronavirus e la solitudine: «Abbiamo creato aree all’interno dell’ospedale in cui mettere colleghe positive perché non potevano tornare a casa. E per un po’ non ho visto mia figlia e anche a casa cercavo di starle lontana». Quelle prime settimane il caos dominava, dice De Maggio: «Era tutto sottosopra».

«Gli infermieri si riammalano, i reparti tornano a riempirsi. Siamo molto stanchi di lavorare in questa situazione»

Passano tre mesi e a maggio l’Italia inizia con piccoli passi a uscire dal lockdown totale: «In estate sembra che la situazione si fosse stabilizzata ma a ottobre e novembre abbiamo dovuto riaprire un reparto Covid». Per De Maggio quello che stanno vivendo è un loop infinito: «Gli infermieri si riammalano, i reparti tornano a riempirsi. Siamo molto stanchi di lavorare in questa situazione». Un anno dopo, mentre le linee guida ospedaliere anti contagio fanno parte della quotidianità, lo sconforto per De Maggio arriva dai dati: «Sono numeri che non possono aiutarci a tornare alla normalità».

Una normalità verso cui – da infermiera – De Maggio nutre poche speranze: «Gli ospedali stanno ancora lavorando in condizioni critiche. Dispiace vedere che il comportamento delle persone fuori non è coerente con quello che succede dentro agli ospedali. Le persone non stanno attente e tutto allora diventa un controsenso. Continueremo a portarci avanti questa situazione per molto finché faremo un passo avanti e uno indietro».

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