Aiuto di emergenza o solidarietà permanente? Il Recovery Plan italiano sorvegliato speciale dai Paesi frugali
Venerdì scorso è entrata in vigore la legge europea sulla Recovery and Resilience Facility (RRF) del valore di 672,5 mld di euro, la parte più grande del Next Generation EU. Adesso gli Stati membri possono presentare formalmente i Recovery Plan nazionali alla Commissione europea, e continuare con le ratifiche nei 27 parlamenti nazionali dell’Unione europea che daranno il via libera finanziario all’operazione. Finora il processo di ratifica è stata concluso solo da sette parlamenti, ma prima di cominciare a raccogliere i soldi serve l’unanimità sul capitolo che autorizza l’Ue a dotarsi di risorse proprie, garanzia necessaria per collocare titoli emessi ad hoc. Per avere successo, i fondi dovranno iniziare a fluire rapidamente nelle economie degli Stati membri, con l’augurio che questi siano capaci di assorbirli più velocemente – e con performance migliori – rispetto ai programmi simili del passato. Altrimenti, l’Ue non riuscirà a rilanciare le sue economie in modo che possano riprendersi e costruire sistemi in grado di dare alle prossime generazioni la possibilità di affrontare le sfide del futuro.
La variante frugale
Mercoledì 17 febbraio il governo finlandese ha dovuto superare l’ostacolo di un voto di fiducia sul Recovery Fund. C’è riuscito, ma senza la maggioranza piena. Il governo ha ricevuto la fiducia con 99 voti a favore, 78 contrari e 22 astenuti. Il Parlamento di Helsinki ha 200 seggi, la maggioranza che sostiene la premier Sanna Marin è di 117 deputati. Non è un dramma, ma l’episodio dimostra che in alcuni Paesi la critica al Recovery Fund è e sarà un argomento politico fonte di polemica, propaganda e dibattito. Non si tratta di capitolo chiuso e condiviso di cui verranno sottolineati solo i successi. Nel caso specifico, i tre partiti dell’opposizione che hanno presentato la mozione di sfiducia affermano che partecipare al Recovery Fund non è nel migliore interesse della Finlandia. I partiti hanno anche lanciato l’allarme che il Ngeu non resti un accordo una tantum ma diventi uno strumento permanente, una possibilità che invece in Italia è esattamente l’obiettivo a cui ha dichiarato di puntare Mario Draghi. Il leader del gruppo parlamentare del partito di estrema destra dei Veri Finlandesi (che in Ue fa parte dello stesso gruppo della Lega), ha detto che imprigionarsi con questi fondi per debitori non risolverà i problemi economici dell’Europa meridionale.
Come sempre, Nord contro Sud
Questo genere di narrazione fa parte della politica dei Paesi nordici, una rappresentazione “noi o loro”, dove il frugale nord si contrappone al sud spendaccione che vuole i loro soldi. Semplificazioni che dopo essere state usate al tempo dell’austerità verranno riproposte, come e più di prima, nel tempo della solidarietà. Visto da Nord, il Recovery Fund è una variante peggiorata di quello schema. Il vertice di luglio durò quattro giorni proprio per questo. Adesso che in alcuni parlamenti nazionali si parla degli strumenti per finanziare la ripresa degli altri Paesi, inizia una fase in cui i governi europeisti del Nord dovranno dimostrare alle opposizioni di essere in grado di verificare come saranno spesi quei soldi. L’operato dei governi di Italia e Spagna sarà oggetto di grande attenzione. L’elemento più significativo dello scetticismo dei Paesi frugali e dei falchi tedeschi è il timore che il Ngeu non si limiti ad essere un sostegno legato all’emergenza, ma che possa diventare uno strumento permanente che rende i Paesi debitori (meridionali) dipendenti in via permanente dal loro sostegno, trasformando l’Ue – ma soprattutto l’eurozona – in un’unione di trasferimenti fiscali dove gli Stati più ricchi trasferiscono denaro in quelli meno ricchi.
La variante italiana
Il caso italiano è il più controverso dell’eurozona, l’impegno di Roma verso i parametri di Maastricht e il processo di introduzione della moneta unica sono andati di pari passo con un calo della crescita economica e problemi di produttività. Ciò è avvenuto perché l’Italia ha rimandato per troppo tempo l’esecuzione di alcune riforme necessarie per cui si era impegnata. Con la costante di una crescita della produttività troppo bassa, il peso del debito pubblico finirà per non essere più sostenibile. In gioco c’è la sostenibilità dell’euro, perché l’Italia è troppo grande sia per fallire che per essere salvata. La missione di Mario Draghi è proprio questa, fare in modo che l’Italia esca dallo status di grande incompiuta dell’eurozona, sfatando le semplificazioni e convincendo i nordici che uno strumento permanente per la costruzione di un bilancio pubblico comune sia sostenibile. L’ex governatore della Bce ha al massimo due anni per realizzare un’agenda di riforme tra le più difficili che si possa immaginare, riforme in grado di aumentare la produttività italiana.
L’ultima possibilità per l’Italia
Draghi ha tracciato un elenco ben mirato di priorità: certezza del diritto per gli investitori; un sistema fiscale che non penalizzi i lavoratori a basso reddito; riforma della pubblica amministrazione e della giustizia civile. Inoltre, a differenza del passato le riforme dell’agenda Draghi non si presentano come una traversata nel deserto dell’austerità, ma come un programma di crescita dopo la lunga notte del Covid-19. Tuttavia, il premier ha anche detto che sta iniziando una fase di scelte difficili, in cui tante aziende non si riprenderanno e dovranno fallire, obbligando un grande numero di lavoratori a riconvertire le proprie professionalità e ripartire da zero. Il limite principale dell’agenda riformista di Draghi è di non essere il risultato di un consenso politico costruito con un processo elettorale. Il problema non è il fatto che lui non sia stato eletto, ma che nessun partito della maggioranza è stato votato dagli elettori per fare quello che sarà fatto. Il suo governo potrà di sicuro avviare alcune riforme utili, ma la principale difficoltà con le grandi riforme strutturali è l’attuazione nel medio e lungo periodo. Draghi ha la capacità e la competenza per dare il via ad alcune riforme eccezionali, ma il resto dipende dalla volontà della politica (e anche degli elettori): se fare di questo governo solo una parentesi prima di tornare allo status quo ante, o se cambiare registro con un’offerta politica diversa. Se riuscirà nell’impresa, Draghi sarà davvero l’uomo che ha fatto per l’Italia e per l’eurozona più di qualsiasi altro leader politico dell’Unione.
Foto: Sara Kurfeß da Unsplash
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