Danni collaterali – Nel quartiere arabo di Milano, dove il Coronavirus colpisce i più deboli: «La speranza è nel sorriso degli abitanti»
I cortili, bellissimi, di via Maratta, con le cementine lucide e le signore sedute sulle panchine, all’ombra di alberi sempreverdi. I cortili della strada parallela, via Abbiati, dove le finestre di legno marcio si alternano a lastre di metallo “anti-invasione”: qui le aiuole sono usate come discariche e, di notte, i senza fissa dimora si appisolano su giacigli di fortuna. San Siro, periferia di Milano, è un luogo di contrasti. I suoi abitanti lo chiamano “il quadrilatero”, chi arriva qui da fuori lo identifica come “il quartiere arabo”: la verità è che nel rettangolo racchiuso tra via Civitali, via Paravia, via Ricciarellli e via Dolci c’è un mondo troppo variegato per essere definito. Ed è un mondo in cui gli effetti del Coronavirus riverberano le criticità strutturali di un’area spesso ignorata dal resto della città.
«Le contraddizioni di questo quartiere si manifestano con forza in via Paravia», spiega Amelia Priano. L’operatrice della cooperativa Genera, capofila del progetto di contrasto alla povertà minorile della Fondazione Cariplo, Qubì Selinunte, conosce ogni angolo di San Siro. «Via Paravia è la frontiera di due mondi: da un lato della careggiata ci sono le case popolari, fatiscenti e in gran parte occupate, dall’altro belle ville residenziali». Priano racconta che alcuni proprietari delle abitazioni di pregio hanno pagato di tasca propria il rifacimento delle facciate di qualche palazzo di edilizia popolare, «pur di non vedere il degrado esterno degli edifici». Ma è all’interno che, purtroppo, le condizioni di vita dei residenti sono difficilissime. «Spazi angusti, appartamenti spesso inadeguati dal punto di vista igienico-sanitario: la pandemia, costringendo le persone a restare chiuse in casa, ha esasperato il disagio».
In uno di questi appartamenti vive Akano, 38enne nigeriano che da circa nove anni abita a San Siro. «Di notte ti svegli con il rumore dei picconi di chi vuole occupare un appartamento vuoto: rompono i muri e le lastre messe da Aler (Azienda lombarda per l’edilizia popolare ndr) per entrarci. Poi, una volta dentro, non li togli più». Con il Coronavirus, Akano ha perso i lavoretti che faceva. Giardinaggio, pulizie, assistenza agli anziani: ha fatto di tutto pur di sopravvivere, «ma io, dopo la licenzia media, avrei voluto continuare a studiare». Ha avuto alcuni problemi con i documenti che gli hanno permesso di entrare in Italia regolarmente, «questioni squisitamente burocratiche», specifica Priano. Da quel momento, ha interrotto gli studi e ha lavorato fino a quando, con la pandemia, «gli italiani che aiutavo, per paura del contagio, non mi hanno chiamato più».
Chi parla di San Siro come una grande casba, la cittadella fortificata tipica dell’architettura maghrebina, probabilmente non l’ha mai attraversato. Certo, la popolazione è prevalentemente nordafricana, ma in questo quartiere le fortezze non esistono: è tutto aperto, nel bene e nel male. «I cortili – racconta Priano – prima della pandemia erano il luogo di incontro di eccellenza. La socialità aiutava gli abitanti del quartiere a non isolarsi e noi operatori a incontrare più famiglie possibili». San Siro prima del Covid viveva en plein air. «Ma questo è spesso negativo – aggiunge invece David, sudamericano che, 20 anni fa, ha acquistato uno di questi appartamenti popolari -. Tutti si comportano come se fossero i padroni di tutto. È inutile persino riparare le serrature dei cancelli dei cortili, perché nel giro di poche ore i delinquenti le fanno saltare ed entrano dentro a giocare a carte, a ubriacarsi e a spacciare».
Sono quasi 15 mila gli abitanti che vivono in questo quartiere di edilizia pubblica realizzato tra il 1935 e il 1947, secondo i canoni dell’architettura razionalista. Aler è proprietaria della gran parte dei 6mila alloggi a San Siro. Benché molti lo considerino “il quartiere arabo” di Milano, sono ben 85 le nazionalità rappresentate in questo quadrilatero. «Metà degli abitanti sono stranieri, l’altra metà sono italiani, perlopiù anziani, residenti storici del quartiere», aggiunge Priano. Se c’è, però, qualcosa che accomuna tutti i residenti di San Siro è il forte disagio per le condizioni abitative: il forte degrado edilizio, le occupazioni: «Circa il 70% degli appartamenti è abitato abusivamente», e la povertà dilagante alimentano le fragilità di tutti. «Il Covid ha evidenziato i problemi strutturali che già c’erano», specifica Claudia Zaninelli, project manager di Soleterre, onlus che si occupa di inclusione sociale e lavorativa e di progetti sanitari.
L’ultimo elemento che ha aggiunto tensione sociale nel quartiere è la comunità rom che si è stanziata nel parcheggio interposto tra i due sensi di marcia di viale Aretusa. Tra roulotte arrugginite e immondizia sparsa ovunque, hanno preso possesso di alcuni spazi pubblici e ciò ha creato malcontento tra gli abitanti. «È una guerra tra poveri», glissa un barista di piazzale Selinunte, il centro del quadrilatero, che però si sente minacciato dalla presenza della comunità rom, «soprattutto perché vanno in giro senza mascherina, si incontrano sulle panchine del piazzale in grandi gruppi, bevono tutta la notte e spesso danno vita a rissa». La pandemia, inoltre, ha portato alla chiusura temporanea o definitiva di molte attività che funzionavano da «presidi di controllo, porti franchi con i quali fare rete».
La rete, in realtà, c’è ancora e non ha mai smesso di funzionare: i suoi nodi sono i tantissimi volontari e operatori che si sono adoperati per fronteggiare l’emergenza Covid. «Abbiamo acquistato e distribuito computer e tablet per permettere ai ragazzi del quartiere di seguire la scuola in Dad», racconta Francesca Petrillo, anche lei di Genera Onlus. «Le famiglie, e quelle che intercettiamo sono soprattutto arabe, sono spesso composte da tre, quattro, anche cinque figli. Vivono tutti insieme in piccoli bilocali, per questo abbiamo sempre cercato di organizzare attività all’aperto, affinché potessero letteralmente respirare». La pandemia ha rallentato queste iniziative, ma non le ha fermate. «Noi operatori, di certo, non ci fermeremo mai – conclude Priano -. San Siro ha tutte le potenzialità per risolvere i suoi problemi. E queste potenzialità sono le tante persone che ci abitano: nonostante tutto, continuano ad avere il futuro negli occhi».
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