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Inflazione, embarghi e blocco di forniture mediche: così le sanzioni Usa impediscono a Iran e Cuba di combattere la pandemia

L'Avana ha così deciso di sviluppare quattro vaccini nazionali, di cui uno arrivato alla fase tre, affidandosi anche a Teheran

Tre anni dopo l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, l’Iran, su pressione statunitense, si è detto pronto a tornare al tavolo dei negoziati e «ad adempiere ai suoi impegni subito dopo la revoca da parte degli Usa delle sanzioni illegali». Nel 2018, l’ex presidente Donald Trump si ritirò dal Jcpoa, l’accordo fortemente voluto da Barack Obama, negoziato con l’intermediazione europea, e firmato nel 2015 dal gruppo dei 5+1 (I membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania) per limitare il programma nucleare di Teheran. Negli ultimi anni, l’ex presidenza americana aveva adottato una campagna di massima pressione, con l’imposizione di nuove sanzioni che hanno soffocato un’economia già in difficoltà, limitando anche l’efficacia della risposta del governo iraniano alla pandemia da Coronavirus.

Il costo della strategia di massima pressione

Invece di allentare la pressione sull’Iran per permettere a Teheran di arginare la diffusione del virus, gli Stati Uniti hanno applicato nuove sanzioni, nonostante l’appello a una strategia più conciliatoria arrivato da diverse organizzazioni internazionali ed ex diplomatici statunitensi. A metà ottobre era stato il board editoriale del New York Times a chiedere all’amministrazione in carica di ripensare la strategia iraniana: «Il bilancio dei morti per Covid in Iran sta aumentando. Mostri Pietà, signor Trump». A seguito della strategia di massima pressione «messa in campo da Trump l’Iran ha visto alla fine del 2020 ridurre del 30% le sue entrate. E quando la perdita è cosi grande è difficile che un governo possa gestire un Paese, figuriamoci combattere una pandemia», commenta a Open Thierry Coville, economista e ricercatore, presso l’istituto Francese per Studi strategici (IRIS).

Gli aiuti negati

A marzo 2020, l’Iran è stato il primo Paese in Medio Oriente a registrare casi di Coronavirus. Ad oggi, il numero dei contagi totali ha toccato la soglia di 1,706,559, mentre il bilancio dei morti è tra i peggiori della Regione: le vittime sono quasi 61mila. «Tra il 2018 e il 2020 l’Iran ha dovuto combattere anche contro un’inflazione molto alta. Il potere d’acquisto della popolazione è crollato e di conseguenze per i cittadini è diventato difficile potersi permettere medicinali», osserva Coville. «E qui sta l’ipocrisia statunitense. Washington afferma che le sanzioni non colpiscono direttamente le forniture mediche – chiarisce Coville – ma le banche straniere, che temono in realtà di essere colpite da queste sanzioni, si rifiutano di procedere con le transazioni e molti degli scambi riguardanti il ​​settore sanitario sono fermi. L’Iran ha di conseguenza difficoltà a importare forniture sanitarie e medicinali».

Appelli per mettere fine, almeno temporaneamente alle sanzioni, erano arrivati da diverse organizzazioni internazionali. Ad aprile 2020, poco più di un mese dopo lo scoppio della pandemia, «l’Iran aveva fatto richiesta al Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 5 miliardi di dollari. Ma gli Stati Uniti l’hanno bloccato con il pretesto che Teheran avrebbe potuto usare quei soldi per fini non sanitari», ricorda Coville.

Durante la campagna elettorale, Joe Biden aveva promesso di mettere fine «alle guerre eterne» in cui sono da decenni coinvolti gli Usa. Ma, parlando di sanzioni, come ha fatto notare in un editoriale l’opinionista del New York Times, Peter Beinart, per decenni, «gli Stati Uniti hanno integrato i loro attacchi missilistici e le operazioni speciali con uno strumento meno visibile di coercizione e morte». Uno strumento che però si è dimostrato inefficace, andando a colpire la vita dei cittadini ordinari.

L’impatto negativo delle sanzioni

«La continua imposizione di sanzioni economiche paralizzanti su Siria, Venezuela, Iran, Cuba e, in misura minore, Zimbabwe, per citare i casi più importanti, mina gravemente il diritto fondamentale dei comuni cittadini a un cibo sufficiente e adeguato», aveva detto a marzo 2020 il relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, Hilal Elver, chiedendo la revoca immediate delle sanzioni per prevenire una crisi economico-sociale nei Paesi colpiti dalla pandemia. In un rapporto presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a metà ottobre, Alena Douhan, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive sul rispetto dei diritti umani, ha ribadito che le sanzioni unilaterali stanno rendendo più difficile per i Paesi coinvolti combattere la pandemia.

Il caso cubano

Oltre all’Iran, tra i Paesi più colpiti dalle sanzioni americane c’è anche Cuba. A giugno 2017, l’amministrazione Trump ha intensificato la pressione nei confronti di Cuba. L’inasprimento delle sanzioni economiche ha colpito alcuni dei settori vitali per lo stato cubano, come il turismo. Le sanzioni statunitensi hanno inoltre bloccato l’uso di piattaforme informatiche come Zoom, fondamentali per facilitare la formazione di medici e servizi di telemedicina.

Nell’aprile 2020, due società con sede in Svizzera, IMT Medical AG e Acutronic Medical Systems AG, si sono rifiutate di vendere ventilatori a Cuba, appellandosi alle sanzioni commerciali, finanziarie ed economiche imposte deagli Stati Uniti; inoltre, sia Medicuba-Suiza che l’Associazione Svizzera-Cuba hanno denunciato il fatto che banche come UBS, Credit Suisse, ZKB r ABS hanno bloccato il trasferimento di donazioni destinate a sostenere la spedizione di emergenza di forniture mediche, reagenti diagnostici e dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario.

La sperimentazione di vaccini

Per questo, sin dall’inizio della pandemia, l’Avana ha deciso di fare affidamento su una produzione locale dei vaccini. Una settimana fa Cuba ha annunciato di aver iniziato la fase finale della sperimentazione dei due vaccini più promettenti. Uno di questi, Soberana 2, sarà ora testato su 44 mila cubani, e su altre migliaia di persone proprio in Iran e anche in Venezuela. Se la sperimentazione finale dovesse avere successo, l’azienda farmaceutica cubana BioCubFarma, come annunciato nei mesi scorsi, è intenzionata a produrre 100 milioni di dosi entro la fine dell’anno. Un numero sufficiente per immunizzare l’intera popolazione – quindi con una doppia somministrazione – e per esportare le restanti dosi agli altri Paesi sudamericani, e anche oltreoceano.

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