I Verdi tornano in Parlamento, sarà la volta buona? «Dall’attivismo del No all’ambiguità M5s, gli errori da non ripetere»
Che sia la volta buona? Che l’ambientalismo possa, davvero, tornare in politica, e con un’azione che vada oltre percentuali elettorali da prefisso telefonico? La sfida è aperta, inaugurata da quella che al momento è nomenclatura: perché il nuovo governo guidato da Mario Draghi vede all’attivo un ministero per la Transizione Ecologica (copyright Beppe Grillo) e un altro dicastero che alla parola Trasporti aggiunge i vocaboli Mobilità Sostenibile. «É la prima volta», ricordano dalla neonata componente ecologista in Parlamento “Facciamo Eco”, iniziativa di tre deputati oggi nel gruppo Misto: Rossella Muroni – già presidente di Legambiente, a Montecitorio dal 2018 e di recente fuoriuscita da Liberi e Uguali -, l’ex ministro Lorenzo Fioramonti, che ha abbandonato un anno fa il Movimento 5 Stelle e che è da allora al lavoro in questa direzione, e Alessandro Fusacchia, eletto con +Europa e già ghostwriter di Emma Bonino.
«C’è differenza tra speranza e fiducia», spiega Fusacchia nel presentare la componente Eco in conferenza stampa alla Camera. «Qui si parola di fiducia. Noi siamo parlamentari: abbiamo votato la fiducia a Mario Draghi per incalzarlo su alcune battaglie». Parole d’ordine che ricorda Rossella Muroni: «Ecologia in senso stretto, informazione e istruzione». «Abbiamo valori comuni, e una ferma volontà di andare al rialzo». Insieme all’appello ai colleghi «a unirsi a noi», aggiunge ancora Fusacchia. Mentre «a chi è fuori chiediamo di parlarci, perché abbiamo un vantaggio: una visione a lungo termine». Funzionerà? «Possiamo agire e reagire in maniera più agile per incalzare il governo», aggiunge Fioramonti. Non stanno fondando un partito, assicurano. Non ancora, almeno. «Penso che non vadano formati in Parlamento, tantomeno in una componente», chiosa Rossella Muroni. «Il tentativo è quello di dare un contributo a un campo in questo momento pieno di macerie».
Onda verde e macerie
E così il partito dei Verdi, dopo 13 anni, torna in Parlamento: la nuova componente ha il via libera del coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli, che ha “ceduto il simbolo” per permettere la nascita della componente (regolamento richiede infatti che venga usato il simbolo di un partito che si è presentato alle ultime elezioni utili). «Il nostro errore storico è quello di esserci sovrapposti con la sinistra radicale. Bisogna fare invece come in Germania, dove gli ambientalisti parlano con tutte le fasce della società», ragionava Bonelli nei giorni scorsi.
In base a cosa questa dovrebbe essere la volta buona? «C’è un cambiamento: da almeno un anno stiamo lavorando con tutti i partner e con i Verdi italiani: c’è una coscienza europea che deve aprirsi», commenta Vula Tsetsi, segretaria dei Verdi europei.
«Le forze già presenti nel panorama italiano non hanno saputo intercettare la richiesta dei giovani di avere voce e spazio», dice a Open Eleonora Evi, europarlamentare dei Verdi Europei pensando ai Fridays for Future. «I verdi politici sono stati una forza storica, e oggi sono consapevoli di avere necessità di aprirsi e rinnovarsi ». E poi sì, la questione culturale, ragiona Evi: «L’ambientalismo veniva descritto come “da salotto”, fatto da pochi e senza radicamento. Non deve e non può essere e non sarà un’operazione di ceto politico chiuso nei suoi palazzi».
«La difficoltà a fare una forza politica verde importante in Italia risente di diversi fattori storici e culturali», conferma Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. «Hanno a che fare con un contesto politico italiano che ha delle specificità, a differenza di quello tedesco dove nel pubblico c’è uno grado di istruzione maggiore, la comprensione della questione scientifica, assai più diffusa, un’industrializzazione che ha distrutto intere regioni, un ceto medio più istruito, un’idea di natura diversa rispetto alla nostra». E poi il rapporto tra politica e industria, «laddove la politica (da noi) è al servizio dell’industria».
Il Movimento che fu
Che l’onda verde in Italia non ci sia (stata) non vede d’accordo Alfonso Pecoraro Scanio. «Il nostro è l’unico paese del Mediterraneo che ha avuto una presenza dei Verdi al governo», dice a Open. Per il due volte ministro (governo Amato II e poi governo Prodi II), dal 2013 «l’onda verde c’è, ma è stata confusa con il Movimento 5 Stelle». Di cui – ragiona Pecoraro Scanio – «si può dire di tutto ma non ci si deve dimenticare del fatto che è – almeno in origine – il più grande partito ecologista al mondo». Certo, «con una forma illiberale e dall’approccio ecopopulista». Ma le 5 stelle del nome del movimento alle origini rappresentavano acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività, e sono state poi modificate in acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo. «E oggi, nel momento di massima difficoltà, stanno provando a riprendere il loro dna iniziale – annacquato – rilanciandosi con la guida di Giuseppe Conte: una rifondazione su basi europeiste», aggiunge Pecoraro Scanio.
E nei 5 Stelle l’ex ministro, già presidente della Federazione dei Verdi dal 2001 al 2008, vede «l’alleato naturale». «Sono ancora iscritto ai Verdi ma non aderisco a derive minoritarie. Non bisogna fare la guerra al Movimento: serve piuttosto una grande alleanza. Io preferisco continuare da attivista. In futuro non escluderei, se ci fossero le condizioni, un interesse in una presenza istituzionale, ma non lo considero dirimente». In Europa però Verdi e Movimento 5 Stelle hanno seguito strade differenti: «Nello stesso momento in cui negoziavano con noi negoziavano anche con Nigel Farage, ex eurodeputato e leader del Brexit Party», chiosa Vula Tsetsi. «Con valori non compatibili con il nostro gruppo».
«Il M5s doveva intercettare le istanze ambientaliste: prometteva di difenderle e le ha tradite», racconta ancora a Open Eleonora Evi. Candidata già nel 2014 con il Movimento fondato da Grillo, lo lascia a dicembre scorso proprio per divergenze sul Mes e Pac, la Politica Agricola Comune. «Una forza politica che ha fatto man bassa di voti anche promettendo cose che non ha mantenuto».
L’associazionismo
«Quello che non c’è ancora è una cultura che possa dare un contributo dal basso», ricorda Annalisa Corrado di Green Italia nel corso della presentazione della componente di Muroni, Fusacchia e Fioramonti. «Dobbiamo ripensare a tutta una politica. Abbiamo bisogno di un luogo, una regia dove tutte le azioni vengano collegate. Noi dall’esterno del Parlamento stiamo tentando di fare alleanze, per esempio con le Sardine e con altre associazioni». E i Fridays for future? «Sono stati tirati per la giacchetta per tutto questo tempo, come le Sardine», attacca Muroni. «Il nostro compito di parlamentari deve essere quello di metterci a disposizione, per portare quei temi in parlamento».
Ma quali sono le responsabilità dello stesso associazionismo nella mancata creazione di una forza politica verde in Italia? «È il combinato disposto tra il contesto culturale italiano e un ambientalismo che ha anche avuto dei meriti storici nella tutela della bellezza del territorio, ma che sul versante dell’innovazione tecnologica ha delle carenze», dice a Open Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. I tempi moderni non aiutano: «Non hai sponde nelle imprese, mentre tutta la cultura italiana resta fuori dal dibattito per ragioni storiche e culturali». Emerge solo – è il ragionamento di Onufrio – la «logica del no», che nella comunicazione funziona. «Quando un’associazione dice “no” a qualcosa, esce, se ne parla. Altrimenti è come se la cultura italiana tutta fosse sorda, non avesse i recettori cerebrali per capire le parole dell’ambientalismo. È impressionante». E chissà, dice il direttore di Greenpeace. «Forse è “colpa” di Benedetto Croce se non riusciamo a portare avanti una riflessione sull’impatto delle tecnologie nelle nostre vite».
La finanza? Fa anche cose buone
Quali sono i fronti aperti? «Ora la direzione di intervento deve essere portata avanti lungo due direttrici molto complementari: la decarbonizzazione e l’economia circolare», spiega a Open Stefano Pogutz, ricercatore del Dipartimento di Management dell’Università Bocconi di Milano. Alla SDA Bocconi School of Management della Bocconi Pogutz insegna sostenibilità. «Sul fronte circolarità abbiamo una storia di scarse materie prime e siamo uno dei Paesi che ha più necessità di riciclare». Il tema economico «offre grande opportunità, e se lo si fa procedere di pari passo alle nuove questioni tecnologiche diventa un moltiplicatore di possibilità». Ancor più in un momento storico come questo: «Un acceleratore per la ripresa».
Per Pogutz l’Italia è ben posizionata: «Non siamo un Paese di retroguardia sulle rinnovabili. Sul tema dell’industria del riciclo tante sono piccole e medie imprese coinvolte». Sfide e consapevolezze a cui il tessuto economico «è arrivato con un’accelerazione molto forte negli ultimi tre anni», spiega ancora il docente della Bocconi. «In certi settori c’è un cambiamento della domanda, i milleniall e la generazione z sono molto più attenti a questi temi e impongono alle aziende di allinearsi per non perderli». E poi «c’è una pressione della finanza: ha preso atto che l’esposizione a certi rischi nel lungo periodo non pagherà». Quindi, «a prescindere dal colore politico, è necessario capire l’opportunità di ripartire da qui, con una visione chiara. E le necessarie competenze».
Da Greenpeace Giuseppe Onufrio parla senza peli sulla lingua di «analfabetismo della classe dirigente italiana»: «La nostra stessa esperienza è questa: è più facile discutere con l’industria, che almeno in parte ha molto chiaro in testa il tema ambientale – piuttosto che con la politica». Sono le aziende «a dettare l’agenda alla politica in termini di innovazione. Tuttora». Per Onufrio oggi siamo «dentro a una faglia sismica della storia in cui sta succedendo una cosa importante: nonostante i colpi di coda dei dinosauri fossili, assistiamo a una velocità di sviluppo delle tecnologie e questo ha un effetto disruptive sul vecchio mondo». Lo scontro finale? «Ci sarà: nel fatto che nella transizione energetica si passa da un mondo dominato da fonti in mano a pochi a fonti nelle disponibilità di molti, con miriadi di oggetti piccoli che costano sempre meno e che sono un mercato aperto», conclude il direttore di Greenpeace Italia. Ecco perché «dobbiamo tornare ad Aristotele e chiederci: che cos’è una riforma?».
In copertina ANSA
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