Benifei, capogruppo Pd in Ue: «Marcucci rispetti il nostro lavoro». E su Renzi: «È ambiguo, deve decidere da che parte stare» – L’intervista
A Bruxelles, dopo una giornata passata all’europarlamento, ma con un orecchio sempre puntato verso le vicende romane del suo partito, il cellulare comincia a squillare. «Marcucci ha criticato la tua riconferma come capodelegazione», «Non lascia, anzi attacca te e Letta», legge tra le notifiche di Whatsapp. Brando Benifei, capogruppo Pd al parlamento europeo, è stato rieletto all’unanimità dagli eurodeputati dem: mentre Graziano Delrio e Andrea Marcucci, capigruppo di Camera e Senato, temporeggiavano, Benifei si era dimesso (salvo essere subito riconfermato) prima che il neo-segretario Enrico Letta facesse il suo appello a lasciare spazio alle donne. «Era un atto dovuto per permettere a Letta di fare le sue valutazioni», dice a Open. «Del resto, anche Delrio e Marcucci rimisero il loro mandato nelle mani proprio di Zingaretti quando venne eletto segretario e in quella fase furono riconfermati».
Marcucci ha trovato incoerente la sua riconferma come capogruppo all’europarlamento. A proposito del passo indietro che gli è stato chiesto, ha detto a Letta: «Sappi che noi non siamo incoscienti, ma pretendiamo coerenza, il passaggio sulla delegazione europea a me non è piaciuto».
«Ci vuole rispetto per il lavoro di ciascun gruppo: questa è la mia risposta a Marcucci. Detto ciò, sono felice che Letta abbia posto con determinazione il tema dell’equilibrio di genere. Al parlamento europeo abbiamo quattro persone con ruoli di guida politica della delegazione: ci sono io, poi le due vice Elisabetta Gualmini e Pina Picerno, e la vicepresidente del gruppo dei Socialisti & Democratici Simona Bonafè. Un uomo e tre donne. Purtroppo, so che al Senato il Pd ha un capogruppo e due vice, tutti e tre uomini. E anche i capigruppo delle commissioni, tranne una donna, sono tutti uomini. È giusto che la questione politica sia stata sollevata nei gruppi Pd a Roma, in Europa osserviamo già da tempo l’equilibrio di genere».
Si è arrivati al 23 marzo perché Delrio sciogliesse chiaramente le riserve su un suo passo indietro. Da parte di Marcucci, invece, si nota una certa resistenza: a cosa è dovuta?
«Non saprei dire, sono decisioni personali e relative a un dibattito politico. Forse la discussione era in una fase più avanzata alla Camera. Sono convinto che fra pochi giorni anche al Senato il Pd avrà un nuovo assetto: non vedo l’ora di incontrare la nuova leadership, qualunque essa sia. Fermo restando che Delrio e Marcucci hanno avuto un ruolo importante nel partito e continueranno ad averlo, fermo restando che hanno svolto un buon lavoro come capigruppo, adesso è il momento di cambiare».
Per come si è evoluta la questione, con una forte presa di posizione da parte di Base riformista, sembra che siano ancora le correnti a decidere nel Pd. Ha fatto bene Zingaretti a lasciare la guida del partito?
«Nell’ultima fase delle sua segreteria, Zingaretti è stato messo sotto un’eccessiva pressione da parte dei meccanismi correntizi. Era diventato l’oggetto di attacchi ingenerosi. Letta, con la nomina della nuova segreteria, ha posto le basi per un nuovo percorso di autonomia dalle correnti, coinvolgendo amministratori locali, esponenti dei territori, schiacciati dalle dinamiche correntizie negli ultimi anni. L’autonomia dalle correnti e, al contempo, l’attenzione verso le realtà lontane da Roma, è un atteggiamento che piace a me e ai colleghi della mia generazione. È giusto indebolire il meccanismo delle correnti, troppo romanocentrico».
I meccanismi di cui parla sono stati esasperati dalla scissione di Renzi e dalla permanenza nel Pd di politici a lui molto vicini?
«Ritengo stucchevole il dibattito sugli ex renziani nel Pd. Chi è rimasto nel Pd e non ha seguito Renzi in Italia Viva l’ha fatto perché si sente parte della famiglia del Pd. Letta l’ha ribadito ai senatori che è finito il tempo delle etichette reciproche. E ne sono contento. Io, personalmente, non dirò mai “via i renziani dal Pd”, perché chi è rimasto nel Pd ha scelto di non essere renziano: è un controsenso. È da sottolineare, piuttosto, che mentre noi abbiamo chiarito il perimetro dell’alleanza larga di centrosinistra per affrontare le prossime elezioni amministrative e politiche, Renzi utilizza parole pericolosamente ambigue sulla collocazione di Italia Viva. Non perché il suo partito sia forte, anzi sembra molto in difficoltà rispetto ad altre forze centriste, ma perché il fatto che un ex leader di primo piano del Pd possa definire il suo partito equidistante da centrodestra e centrosinistra mi stupisce in negativo».
Tornando al tema donne e ruoli nel partito, come mai se ne parla soltanto in questa fase e non quando c’è stato da scegliere i ministri del governo Draghi o il nuovo segretario del Pd?
«Quando sono stati scelti i ministri, sappiamo che il Pd ha indicato più nomi al presidente del Consiglio. A me risulta che ci fossero anche nomi femminili. Poi la composizione finale del governo è in capo al presidente del Consiglio, in un rapporto esclusivo con il presidente della Repubblica. Detto ciò, lo ammetto, è stata una ferita, alla quale si è cercato di mettere un cerotto con la presenza femminile quasi totale nei ruoli di sottogoverno. Mi rendo conto che non è abbastanza e mi auguro che la sfida per la leadership femminile parta proprio dai territori: è importante per il futuro del Pd, ma ancor di più per il futuro del Paese. Mentre altri partiti non si pongono il problema, Letta ha voluto sollevarlo con forza, anche con la questione dei capigruppo di Camera e Senato. Anzi, lui stesso nel discorso all’assemblea del Pd ha detto che il fatto che sarebbe diventato lui segretario e non una donna costituiva un problema. Adesso, facciamo in modo che la prossima segreteria del Pd sia guidata da una donna».
Nel gruppo all’europarlamento che lei guida, le correnti hanno lo stesso peso che c’è nella dimensione nazionale del partito?
«Ovviamente veniamo da storie e da percorsi politici diversi, ma non percepisco una presenza di meccanismi correntizi nel gruppo Pd all’europarlamento. Le correnti parlano più del passato che del presente, andiamo oltre».
Chiudiamo restando sulle questioni europee. Letta ha detto che a fine 2021, quando ci sarà il giro di boa dell’europarlamento e si rinnoveranno le cariche, il Pd verificherà se ci sono le condizioni per aprire alla delegazione degli eurodeputati del M5s le porte del gruppo Socialisti & Democratici. È d’accordo?
«È sacrosanto. Un dialogo, chiaro, con una forza politica che ha detto pubblicamente, seppur senza passi formali, di essere interessata a far parte del gruppo Socialisti & Democratici, bisogna averlo. In questa legislatura abbiamo apprezzato la svolta del Movimento 5 stelle, con la scelta di sostenere la presidenza von der Leyen e l’impegno comune per il Next Generation Eu nei mesi più difficili della pandemia. L’eventuale ingresso, però, deve essere frutto di un ragionamento e di una conoscenza reciproca approfondita. Questo perché in passato i 5 stelle non sono stati affatto progressisti. Devono fare chiarezza su alcuni temi, penso all’immigrazione: al parlamento europeo, i 5 stelle hanno avuto una posizione più simile alla Lega che a quella del Pd. Non possiamo transigere su temi come questi.
Vogliamo approfondire anche il tema della trasparenza. La figura di Casaleggio per il Movimento, oggi, è ancora ingombrante. Nel gruppo S&D ci devono essere partiti scevri da ogni influenza impropria di società private. Il percorso di Conte va in questa direzione: lui stesso vuole definire e forse limitare il rapporto tra 5 stelle con un ente privato quale è la Casaleggio associati. Nell’ultimo anno e mezzo, quello del governo Conte due, Pd e 5 stelle hanno avuto una relazione positiva all’interno della maggioranza. Ma è un rapporto, il nostro, che ha dei “ma” e dei “se”: non siamo la stessa cosa e adesso inizia la fase di definizione di ciò che ci accomuna e di ciò che ci differenzia».
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