Mauro Berruto: «La pandemia ha cancellato lo sport. Si aiutino le associazioni sportive e la scuola per farlo rinascere» – L’intervista
L’eleganza del gesto. L’arte di rimanere in equilibrio anche quando si è sotto pressione. Per Mauro Berruto, ex ct della nazionale italiana di pallavolo maschile prima, e di quella di di arco poi, la vita è stata un continuo soppesare, un muoversi tra una disciplina e l’altra con la consapevolezza che dovunque tu sia il mestiere dell’allenatore è quello di tirare fuori un potenziale nascosto, inespresso. Di sfide Berruto – scelto dal nuovo segretario del Pd Enrico Letta per far parte della segreteria – ne ha vinte e perse tante sui campi da gioco. E mai come in quest’anno la sfida più grande è quella di trovare la chiave per far ripartire uno dei settori più colpiti dalla crisi sanitaria ed economica: quello sportivo.
Dopo un anno di pandemia, lo sport continua a essere assente da qualsiasi dibattito. Perché?
«In Italia non abbiamo mai costruito una cultura sportiva. Negli ultimi settant’anni la scuola si è deliberatamente sottratta dall’occuparsi del tema. L’Italia è un Paese che ama lo sport, lo segue, lo tifa. Ma non abbiamo una cultura del movimento. Questa deve passare attraverso le due grandi agenzie educative che rimangono: la scuola e la famiglia».
Perché parla di una scuola assente?
«Le istituzione scolastiche hanno deciso di non occuparsi della cultura sportiva e questo è un disastro. Abbiamo scelto un modello dove la pratica sportiva è stata delegata alla rete di associazioni che in Italia è gigantesca. Fanno un lavoro grandioso e meritorio e hanno lavorato da sempre duramente per colmare questo vuoto. Sono loro che vanno dentro le scuole, quando dovrebbero essere le scuole a indirizzare i ragazzi, a farli appassionare alla cultura del movimento, così come ci si appassiona a materie come l’inglese e la matematica. Se la scuola si riappropriasse di questo compito ci sarebbero molti più ragazzi desiderosi di fare attività sportiva».
E riguardo alla famiglia?
«Come dicevo si tratta di una delle due grandi realtà educative. E’ stato l’investimento economico delle famiglie a tenere in piedi lo sport negli ultimi settant’anni. Lo sport di base si fonda su denaro privato, che arriva parzialmente dai finanziatori, ma principalmente dalle famiglie che pagano le quote sociali affinché i loro figli possano fare attività sportiva. La grande preoccupazione è che oggi la capacità di spesa si è ridotta e se non hai costruito una cultura del movimento anche per le famiglie lo sport diventa un bene non essenziale».
Se, come dice, la famiglia non ha più un ruolo centrale, qual è il futuro dello sport italiano?
«Abbiamo un problema di sopravvivenza delle associazioni sportive. Queste realtà hanno il merito gigantesco di aver tenuto in piedi la rete sportiva del Paese. Quella che si presenta è una questione non solo politica, ma anche economica, ed è facilmente calcolabile. La mancanza di una cultura sportiva ha un impatto sul servizio sanitario nazionale. Non è un caso che continuiamo a essere in cima alle classifiche dei Paesi con il più alto numero di adolescenti in forte sovrappeso che si portano poi dietro altre patologie. Se noi agiamo in maniera disattenta e non costruiamo una cultura del movimento ne pagheremo il conto. E questa è una certezza. E’ un tema che non riguarda solo i giovani perché quello che abbiamo di fronte è potenzialmente un enorme generatore di risparmio e per questo dovrebbe essere considerato un bene primario ed essenziale».
La pandemia ha avuto però un grosso impatto sulle piccole associazioni sportive. Come si supera questa grande crisi?
«Se è vero che qualcosa è stato fatto a tutela dei lavoratori dello sport, è altrettanto vero che nulla è stato fatto per il mondo delle associazioni. Si sta tentando di ristorare – giustamente – i lavoratori. Ci siamo dimenticati però che quel sostegno risolve un problema per due o tre mesi. Se a settembre – speriamo – si potrà riorganizzare l’attività sportiva ci ritroveremo senza centinaia di società sportive. Su questo modello è chiaramente cascato un meteorite e adesso bisogna costruirne uno nuovo. E per farlo bisogna considerare lo sport un bene essenziale. L’intervento pubblico per difenderlo è una necessità e un dovere».
Dall’Europa arriveranno i soldi del Next Generation Ue. Può essere uno strumento di ripartenza?
«E’ un’occasione che certamente non possiamo sprecare. Da una parte bisogna impiegare quei fondi per lavorare oggi su progetti che diffondano una cultura sportiva. Perché in termini di prevenzione e di controllo di alcune patologie i risultati sono pazzeschi. E’ un modo per riattivare l’economia, ridare lavoro agli operatori del settore, migliorare la qualità della vita e contemporaneamente abbiamo progetti che generano risparmio per la sanità. L’altra priorità è assolutamente la scuola primaria. Per me è la madre di tutte le battaglie, è il luogo dove è più sguarnito l’insegnamento della cultura del movimento».
E le infrastrutture?
«Dobbiamo assolutamente ridisegnare il paesaggio delle città, riappropriarci degli spazi urbani, e tornare a immaginarli come possibili luoghi accoglienti per lo sport. E’ sicuramente giusto recuperare impianti e aree dismesse, ma non è solo un tema di infrastrutture, è un tema culturale che ci permette di reinterpretare il paesaggio urbano e avere un impatto su tanti aspetti».
Ha parlato dell’Italia come di un Paese di tanti tifosi, ma di pochi sportivi. C’è secondo lei una cultura tossica del tifo?
«Ho lavorato sei anni in Finlandia e in generale la Scandinavia è uno dei posti che più al mondo incarna la cultura sportiva. Oltre alla centralità della scuola, capita che l’accezione di amore e attenzione nei confronti dello sport passi proprio dalla sua pratica. E questa visione ha due grandi meriti: la grande capacità di interagire con l’ambiente e la capacità di leggere uno sport in maniera molto più consapevole, bella e pulita. Se riesci a godere di uno spettacolo sportivo al di là del meccanismo emozionale, capisci molto meglio che quando devi tirare un rigore al 90esimo e hai il cuore a 150 battiti la porta ti sembra piccolissima. Se hai giocato a pallavolo – per esempio – sai quanto è difficile fare una battuta sul 15 a 14 durante un tie break».
Nel suo libro ha parlato dello sport come di capolavori che vanno al di là di vittorie e sconfitte. Che cosa significa per lei come allenatore?
«Per me il capolavoro è la piena trasformazione del potenziale in una prestazione. Se io mi metto domani, a 51 anni, a preparare una maratona non la finirò in due ore. Ma se il mio potenziale è di riuscire a terminarla in tre ore e mezza e io ci riesco, allora avrò realizzato un capolavoro. Come allenatore si tratta della completa trasformazione del tuo talento, della tua capacità fisica e mentale. Qualche volta significa vincere medaglie, qualche volta significa arrivare 46esimo. E lo sport è forse uno degli ultimi ambienti rimasti che ti insegna come la piena trasformazione del tuo potenziale non passa da scorciatoie. C’è l’allenamento e il sudore. Viviamo in un mondo in cui ci insegnano a fare meno fatica possibile, qualunque strumento elettronico deve esser intuitivo, devi essere in grado di usarlo fin da subito senza un libretto di istruzioni. Abbiamo smarrito il senso della necessità di fare fatica per entrare nel rapporto tra potenziale e prestazione».
Mancano quattro mesi all’Olimpiade. Che cosa rappresenta un evento sportivo cosi grande in un anno cosi incerto?
«Intanto spero che i Giochi olimpici si facciano. Ho avuto la fortuna di partecipare a due edizioni delle Olimpiadi, prima ad Atene (2004) e poi a Londra (2012). So bene che cosa significhi quel viaggio di avvicinamento dove c’è attenzione in ogni dettaglio. Questa edizione sarà unica e per fortuna irripetibile. Quest’anno più che mai i Giochi avranno un valore simbolico di importanza superiore a quello agonistico. Speriamo il prossimo 23 luglio di vedere la fiamma riaccendere il braciere olimpico. Forse vorrà dire che veramente siamo ripartiti».
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