Prìncipi o caporali? Tra gli arresti a Foggia per sfruttamento c’è anche un’azienda col marchio No Cap, il bollino contro il caporalato
Un marchio usato come facciata per coprire vecchie dinamiche di sfruttamento. Tra le 8 aziende coinvolte negli arresti e nei sequestri del 2 aprile c’era anche la Op Principe di Puglia di Stonara (provincia di Foggia). L’azienda è affiliata dall’autunno del 2020 al marchio No Cap, fondato dall’attivista camerunense Yvan Sagnet. L’indagine della procura di Foggia “Prìncipi o caporali”, che ha portato alla messa in custodia di 10 persone, prende il nome proprio dalla società in questione, gestita da Potito Dimallio e dai suoi figli Antonio e Rocco Dimallio.
Come confermano fonti sindacali sul posto, l’azienda avrebbe assunto su segnalazione dell’associazione circa 8 ragazze (italiane e non) assistite nei centri antiviolenza, guadagnandosi in questo modo il bollino etico. La stessa società però, stando alle indagini condotte tra giugno e ottobre 2020, avrebbe sfruttato i braccianti residenti nell’ex pista Borgo Mezzanone (la baraccopoli sorta sulla pista di un vecchio aeroporto, ora usato come centro d’accoglienza per i profughi).
L’inchiesta
Le indagini sono partite a luglio dello scorso anno e si sono concluse a ottobre. Come si legge nelle carte dei Carabinieri di Foggia, le aziende coinvolte impiegavano i braccianti, «quasi tutti africani», provenienti dalla baraccopoli del foggiano. Arrivavano nei campi di Stonara a bordo dei «precari automezzi» dei caporali, per poi essere impiegati a lavoro nei campi a «ritmi estenuanti, spesso senza i previsti dispositivi di protezione individuale e soggetti a controlli serrati da parte dei caporali». Ora bisognerà accertare il grado di responsabilità e coinvolgimento delle aziende in questione.
Le ragazze assunte dai centri antiviolenza
Per quanto riguarda il caso specifico dell’Op Principe di Puglia, l’azienda – che si autodefiniva «fiore all’occhiello della capitanata in materia di diritti» – aveva assunto a partire da dicembre 2020 8 donne come braccianti, all’interno del progetto No Cap “Donne contro il caporalato”. Le ragazze – 4 delle quali, spiegano alcune fonti, sono nigeriane – provenivano da centri antiviolenza e di volontariato ed erano state segnalate dalla stessa associazione. Ma se a loro veniva garantito giusto salario e giuste condizioni di vita (compreso il servizio di trasporti), altri lavoratori erano stati impiegati come manodopera a basso costo e a ritmi disumani.
Il marchio No Cap e la difficoltà di controllare la filiera
Creato nel 2019 da Sagnet – l’ingegnere camerunense portabandiera della protesta dei braccianti di Nardò del 2011 – il marchio No Cap era nato dall’accordo con il Gruppo Megamark allo scopo di fare un ulteriore passo nella lotta al caporalato. L’intento principale è quello di portare sugli scaffali dei supermercati prodotti leggermente più costosi degli altri, ma coltivati nel pieno rispetto dei diritti umani e civili.
Il metodo di certificazione, però, ha già riscontrato le prime falle: complice la difficoltà di controllare l’intera filiera – anche a causa delle dinamiche criminali che spesso la regolano – il bollino è andato nelle mani anche di chi, secondo la procura, non ha alle spalle una storia senza macchie di sfruttamento. La stessa associazione No Cap ha precisato che il bollino «viene riconosciuto esclusivamente al prodotto, e non può certificare processi aziendali del passato nel quale noi non avevamo strumenti di controllo». L’azienda Op Principe di Puglia, d’altronde, risultava incensurata fino a oggi.
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Immagine di copertina: ANSA/FRANCO CAUTILLO