Ciciliano (Cts): «Riaperture? Frutto di un’esigenza politica. I dati non ci aiutano» – L’intervista
Dopo il Benin invaso dall’emergenza Aids, dopo l’esplosione del reattore di Fukushima, dopo l’epidemia di colera ad Haiti e il terremoto in Iran, il dirigente medico della Polizia di Stato Fabio Ciciliano, un anno fa, è corso in Italia per dare aiuto in quella che definisce «la situazione più difficile che abbia mai dovuto gestire». Membro della prima ora del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19 del nostro Paese, fu chiamato dall’ex capo della Polizia Gabrielli, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio scelto da Mario Draghi, per far parte del primo gruppo di esperti incaricato di guidare la nave in tempesta. Esperto in medicina delle catastrofi, per un anno segretario del Comitato, è rimasto tra i componenti anche del nuovo Cts voluto da Draghi, ora in rappresentanza del Dipartimento della Protezione Civile. Oggi, insieme altri altri 10 membri, deciderà da un punto di vista tecnico e scientifico, se le proposte di riaperture di bar, ristoranti, piscine e stadi, avanzate ieri dalle Regioni italiane, potranno essere approvate.
Dottore, cosa succederà oggi?
«Ci vedremo intorno alle 14 per l’analisi dei dati forniti dalla Cabina di Regia e lì, nel caso in cui il protocollo delle Regioni arriverà sul nostro tavolo, si discuterà. Il punto di partenza ovviamente saranno i dati che l’Istituto superiore di sanità ci fornirà».
Bene, ma perché questa decisione da prendere? Ci si aspettano dati incoraggianti?
«Non credo. Quella di fronte a cui ci troviamo è un’evidente esigenza politica. E non le nascondo che questo ogni volta mi provoca un certo imbarazzo. Non mi sono mai posto nella posizione di dover decidere tra le due ale, rigorista o aperturista. Ma mi rendo conto che il vero problema che confligge con le nostre decisioni tecniche è il fatto che il Paese non ce la fa, il premier lo ha più volte ribadito ed è una realtà. Il dato di fatto più pericoloso è che si sta registrando un’assuefazione al rischio. Questo perché l’idea di dover sopravvivere con il poco che è rimasto ancora per molto tempo spaventa troppo la popolazione. Nel primo lockdown sono stati utilizzati tutti i risparmi, ora i risparmi non ci sono più ma la possibilità di lavorare per molti non è tornata».
Considerazioni condivisibili, ma sicuramente non di tipo strettamente tecnico. Che tipo di decisione è quella di oggi, scientifica o politica?
«Il confine a questo punto è sottile ma deve essere mantenuto saldo. Come tecnici siamo chiamati ad esprimerci sulla base della situazione epidemiologica e su null’altro. Chiaro è che il dialogo con la politica non può non esserci. Ricordo che la decisione ultima spetta al governo».
Ma l’analisi del Cts è tra le più attese. Ci avviamo a riaperture graduali di molte attività e spazi sociali. Da tecnico, possiamo effettivamente permettercelo?
«L’anno scorso abbiamo cominciato a riaprire il 3 maggio con la selvicoltura e l’edilizia dopo un periodo di chiusura totale per poi a fine mese riaprire le attività economiche. Lo abbiamo fatto con numeri e dati epidemiologici completamente abbattuti. La scelta politica nella seconda ondata è stata invece quella di sostenere le difficoltà del Paese con la conseguenza di misure di contenimento più larghe e una maggiore diffusione del virus. In tutto ciò l’arrivo delle varianti non ha aiutato, l’impatto è ancora forte, con un virus di fatto molto più potente nella capacità di diffondersi. L’unico modo per fermare la circolazione è evitare il più possibile il contatto tra le persone».
Ma si riapre.
«Un’obiezione sensata ma come detto prima: le decisioni sono politiche».
Green pass vaccinale per stadi e cinema? Tamponi all’entrata dei ristoranti? Verso cosa è più fattibile orientarsi per le operazioni di controllo?
«Attualmente non credo nel green pass, il numero di vaccinati è troppo basso. C’è un fondamento etico che questa misura andrebbe a minare diventando un possibile strumento di discriminazione. Una soluzione di questo tipo potrei immaginarla alla fine della campagna vaccinale, quando tutti in egual modo hanno avuto possibilità di accesso all’immunizzazione dal virus. Ora no. Sul fronte dei tamponi è più l’infattibilità che mi preoccupa. Si rischia il tentativo di fuga da una norma poco probabile soprattutto tra i giovani. Il controllo sulla veridicità dei certificati presentati all’entrata sarebbe difficile, così come l’effettuazione dei test al momento. Per questo per ora tutto all’aperto, le temperature stanno per alzarsi e questo è un bene per la circolazione del virus. In ogni caso le riaperture non saranno immediate, si procederà per step. Metteranno sui nostri tavoli delle proposte su come gestire bar, ristoranti, stadi o spettacoli e valuteremo se quel tipo di gestione contribuirà a non mettere ad alto rischio la popolazione. Da lì ad essere ascoltati ci sarà altra strada da fare. Lo abbiamo visto la scorsa estate con le discoteche sulla cui riapertura siamo stati contrari fin dall’inizio».
Discoteche giustamente no, stadi a quanto pare sì. C’entra la politica anche qui?
«Non abbiamo ancora formalmente deciso nulla. Ma la proposta che ci arriva dall’Ufficio dello sport non può non essere non valutata. Sul criterio da seguire esiste un algoritmo fatto dall’Oms per la gestione degli eventi con grande affollamento di pubblico che abbiamo utilizzato più volte. Per esempio nei protocolli degli internazionali di tennis in Italia, che ai tempi ci sembrò una decisione a rischio troppo alto. Dopodiché spetta al decisore politico capire cosa fare. 18.000 persone che si aggregano per arrivare allo stadio costituiscono un rischio. Per questo non credo che gli stadi riapriranno, o che lo sport in generale possa riaprire. Si apre lo stadio Olimpico esclusivamente per le quattro partite degli Europei e poi si vedrà. Per gli spettacoli la valutazione sarà simile. Il ministro Franceschini ci ha giustamente presentato la sua proposta. Per la valutazione ci baseremo anche sui risultati degli esperimenti effettuati in altri Paesi europei come Olanda e Barcellona in occasione di concerti o eventi sportivi realizzati ad hoc. Potrebbero esserci utile a capire l’entità effettiva del rischio».
A proposito di rischio: diverse regioni pare abbiano dati da zona gialla. L’idea è ancora quella di un’arancione nazionale?
«Una regione in zona gialla è una regione in cui il virus circola ancora tantissimo e questo non è chiaro molti. Tant’è vero che come è accaduto più volte in questi mesi, gli indici epidemiologici di un territorio entrato in zona gialla si riducono ma non riescono mai a scendere ulteriormente. Si rialzano puntualmente poco dopo per tornare a quelli da zona arancione».
Questo mette in discussione di nuovo l’idea dei colori regionali.
«Direi della zona gialla come era stata pensata finora. In questo momento l’idea della zona a basso rischio si è indebolita in maniera proporzionale allo scoppio delle varianti. Nel ragionamento sui colori non possiamo dimenticare questo aspetto determinante. Il virus ora è più capace di trasmettersi, da questo punto di vista il giallo non è più stato un colore corrispondente al rischio basso».
Le Regioni chiedono di cambiare i parametri. Ci sono ancora dubbi sulla validità dell’indice Rt e si propone l’introduzione di un nuovo criterio, quello del ritmo delle vaccinazioni. Fattibile?
«Sull’indice Rt in parte siamo d’accordo. Proponiamo che venga calcolato sui ricoveri, sul dato certificato delle persone che occupano i reparti. Un tipo di calcolo più affinato rispetto a quello più generale della popolazione, preso in analisi dall’attuale Rt. Il rappresentante del Cts Ippolito, insieme al consesso per la riorganizzazione degli indicatori, sta lavorando a questa proposta. Sul nuovo indicatore dei vaccini sono favorevole. Importante sarà declinare il criterio di base. Se in base al numero di dosi utilizzate, ricordando che al netto di Johnson & Johnson, per tutti gli altri vaccini approvati c’è la doppia iniezione, o, come sarebbe preferibile, per numero di persone immunizzate».
A proposito di immunizzazione: Johnson e Johnson è sospeso, la sfiducia cresce. Cosa fare?
«I dati parlano, si tratta di 9 casi di trombosi su 10 milioni. Per l’antimorbillo c’è un’incidenza di 1 su 1000 di casi encefalite. Cos’altro possiamo dire se non far parlare i numeri? In questo momento cercherei di raddrizzare la comunicazione. Ai primi di gennaio, quando si parlava di Pfizer e Moderna, si raccontava di vaccina a mRna, nuovi e sperimentali. Tutti aspettavano Astrazeneca perché con un procedimento di sperimentazione più conosciuto e quindi più rassicurante. Al punto tale che noi del Cts decidemmo di vaccinarci davanti alle telecamere per far capire quanto ci si potesse fidare anche di Pfizer e Moderna. La stessa cosa è poi successa con Astrazeneca, ora con Johnson e Johnson. Stiamo rischiando di buttare farmaci ottimi».
Ma la decisione che il Ministero della Salute anticipa, aiutato dalla Commissione europea, è quella di bloccare per il 2022 tutti i contratti di vaccini che non siano Pfizer e Moderna. Sono valutazioni che, se fatte trapelare, al momento assumono un fortissimo peso.
«Quello che posso dire è che tutti i vaccini messi in commercio sono ottimi farmaci per prevenire l’infezione da Covid. Di certo una delle cautele più urgenti da avere in questo momento è quella nella comunicazione delle scelte. Le persone estremamente a rischio per il lavoro che compiono, come gli operatori sanitari, hanno necessità di una copertura maggiore come quella fornita da Moderna e da Pfizer. Per le categorie più giovani e per il loro livello di rischio tutti gli altri vaccini anti Covid al momento autorizzati sono ottimi, e fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo finale. E poi, siamo così convinti che Pfizer e Moderna siano in grado di sostenere l’approvvigionamento vaccinale mondiale?».
Mesi fa si è dichiarato convinto che il Paese non avrebbe raggiunto l’immunità di gregge entro l’anno. Con 500mila dosi giornaliere ora Figliuolo la garantisce per settembre. Si è convinto?
«Vorrei dirle qualcosa di diverso ma no. Non credo si possa garantire all’80% della popolazione una completa immunizzazione né entro settembre né entro il 2021. Stiamo vaccinando a passo più spedito e la logistica messa in campo dal generale Figliuolo è senza dubbio puntuale. Fin dai primi mesi di campagna mi sono speso affinché si includesse anche il sistema nazionale di Protezione civile e la componente militare, sono contento che si sia arrivati a capirlo.
I due nodi difficilissimi da sciogliere ora sono quelli dell’arrivo dei vaccini e del livellamento delle regioni. Un elemento, quest’ultimo, che non vedo di risoluzione prossima. Il coordinamento rimarrà frastagliato anche se quello che mi auguro è ovviamente un andamento unitario, che le emergenze richiedono per definizione. E poi c’è uno dei fronti di cui si parla poco e che ad oggi rimane uno dei più pericolosi.
Quale?
La fuga dalle vaccinazioni non per scetticismo ma per “inutilità”. Un fenomeno possibile tra non molti mesi. Quando i più fragili e gli anziani saranno protetti, quando i numeri dei decessi saranno più bassi, quando a vaccinarsi saranno chiamati i più giovani. A quel punto considereranno quasi inutile sottoporsi al vaccino anti Covid. La percezione del rischio potrebbe ulteriormente abbassarsi in un momento da non sottovalutare anche e soprattutto a causa della continua nascita di varianti. Se le future si rivelassero resistenti ai vaccini che abbiamo dovremmo ricominciare da capo».
Cosa ricorda di quella telefonata di Gabrielli che la portò a combattere contro un nemico finora mai affrontato?
«Quello che successe subito dopo. In pochi a gestire protocolli sconosciuti, momenti di completo disorientamento in cui si partiva da zero. Ricordo che il Cts non aveva ancora neanche una mail di riferimento per comunicare. Si dormiva tre ore a notte nella ricerca disperata di bombole di ossigeno, tute, visiere, mascherine. La validazione di quei dispositivi era unicamente a capo del Comitato con dettami molto tecnici che non sempre rientravano nelle nostre competenze. Fondamentale per noi fu il supporto dell’Iss e dell’Inail.
Ho le spalle abbastanza larghe ma il momento che farò fatica a dimenticare è quando seduto tra quattro mura cercavo insieme ad altri pochi colleghi soluzioni che potessero impattare in maniera forte ed efficace sul Paese, ma nulla. I numeri continuavano a salire. Il senso di impotenza assoluta davanti al picco degli oltre 900 morti. Una vera e propria guerra. Che non va dimenticata».
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